Christian Rocca, Il Sole 24 Ore 15/10/2010, 15 ottobre 2010
NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE KABUL
Il nostro dibattito di questi giorni non cambierà di una virgola il corso della guerra afghana né la strategia politica e militare adottata da Barack Obama alla fine del 2009. La coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti resterà a Kabul, continuerà a combattere i talebani fin dentro il confine pakistano, aumenterà la potenza di fuoco anche aerea, non fermerà le attività di ricostruzione civile del paese. Obama terrà aperta la porta della soluzione pacifica, come da manuale di counterinsurgency, come è successo in Iraq, come dimostrano le notizie di questi giorni provenienti da Kabul.
L’Italia conserva la sovranità nazionale, ma fa parte di un’alleanza internazionale. Il Consiglio di sicurezza Onu due giorni fa ha rinnovato l’autorizzazione alla missione militare. Il ruolo della Nato è importante, ma a prendere le decisioni è la Casa Bianca. A Washington non c’è più il presidente texano, ma l’uomo del cambiamento e della speranza. Con Obama il numero dei soldati americani è triplicato (98mila) rispetto a quanti ne aveva lasciati Bush. Su esplicita richiesta del presidente è aumentato anche il contributo della Nato. L’Italia invierà altri 400 soldati e a regime i nostri connazionali saranno 4mila. L’Afghanistan è una «guerra necessaria», ha detto Obama. La definizione di vittoria è più ristretta, rispetto alle idee liberatrici del predecessore, ma resta comunque quella d’impedire che la zona diventi una centrale di lancio per attacchi terroristici contro gli Stati Uniti e i suoi alleati.
A dicembre è previsto alla Casa Bianca il primo check sistematico sulla strategia afghana, ma i giornali americani hanno già spiegato che sarà una formalità: Obama non tornerà indietro, non annuncerà cambiamenti strategici, non si ritirerà dall’Afghanistan.
Il presidente ha appena cambiato il consigliere per la sicurezza nazionale Jim Jones con Tom Donilon. Un politico al posto di un militare. Una colomba al posto di un ex generale dei marines. L’analista del Council on Foreign Relations Peter Beinart sostiene che dietro l’avvicendamento al vertice della politica di sicurezza nazionale possa esserci l’idea di chiudere l’avventura afghana. Ma è così? Non c’è dubbio che Obama voglia disimpegnarsi dall’Afghanistan, ma non al prezzo di una disfatta per sé e per l’America.
Il libro di Bob Woodward, Obama wars, ha raccontato le divisioni interne al gabinetto di guerra sull’Afghanistan. Meno di un anno fa Obama ha rigettato l’idea del vicepresidente Joe Biden (e di Donilon) di circoscrivere le operazioni militari all’attività antiterrorismo contro al-Qaeda e ha deciso di combattere anche i talebani, impegnandosi a difendere il fragile governo di Hamid Karzai. I militari hanno chiesto 40mila uomini in più per ripetere in Afghanistan il successo del “surge” iracheno. Il presidente ne ha concessi 30 mila. La decisione è stata chiara, anche se priva di una solida cornice ideologica per paura di scontentare l’ala più liberal del partito democratico e forse anche se stesso.
La differenza geostrategica della guerra obamiana rispetto ai piani di Bush consiste nell’allargamento del conflitto al Pakistan per negare rifugio a talebani e jihadisti e per costringere l’alleato pakistano a smetterla con i doppi giochi. Per fare ciò Obama ha triplicato le truppe impiegate sul campo, ha convinto gli alleati Nato ad aumentare l’impegno militare, ha affidato alla Cia la guerra segreta con i droni che bombardano senza tregua i villaggi pakistani al confine con l’Afghanistan e ha rafforzato i legami politici e militari con il governo di Islamabad.
La strategia è ancora fresca, le truppe sono appena arrivate, il nuovo generale David Petraeus ha preso il comando tre mesi fa. Le notizie provenienti dal fronte sono sia positive sia negative. Gruppi di talebani si arrendono e offrono collaborazione. Altri continuano a combattere nella speranza che prima o poi gli americani se ne vadano. Newsweek ha raccontato che in Afghanistan al-Qaeda e i jihadisti non ci sono più, sono stati cacciati dalle truppe internazionali, decimati dai missili sganciati dai droni e costretti a scappare in Tagikistan.
Il rientro delle truppe internazionali potrebbe cominciare a metà 2011, ma a condizione che la situazione sul campo lo consenta. Né i falchi né le colombe vogliono cambiare strategia. I falchi dentro e fuori l’Amministrazione non condividono l’idea di un calendario per il ritiro e premono per chiudere al più presto la partita. Le colombe sperano nei progressi militari proprio per rispettare l’impegno del 2011, in tempo per la rielezione di Obama del 2012.