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 2010  ottobre 15 Venerdì calendario

NELLA MINIERA «SICURA» DOPO L’INCUBO DI COPIAPÒ

Il colore dei pullman, blu e arancione, si staglia sulle montagne non ancora rocciose della pre-Cordigliera andina. Uno dopo l’altro, a formare una lunga colonna, arrancano tra i tornanti della strada che da Rancagua raggiunge la più grande miniera di rame del mondo a 2.200 metri di altitudine: la miniera Esmeralda del complesso El Teniente.

Sullo sfondo le cime più alte, di 5mila metri, ancora imbiancate. Ogni giorno, per tre volte, con immutabile ritualità, caricano e scaricano centinaia di minatori che, in turni di otto ore, si inabissano nelle viscere di questa terra odiata e amata. Ciascuno di loro lavorerà in una piccola tratta di quei settemila chilometri di gallerie scavate nella miniera.

Entriamo da una bocca laterale. Ma prima di varcare la soglia del tunnel, la vestizione. La dotazione anti-infortunistica è complessa: giubbotto arancione munito di moschettoni, imbragatura alpinistica, anzi andinistica, scarponi con la punta rinforzata, casco, luce frontale e occhialoni protettivi. L’ingresso nelle viscere della terra all’indomani della riemersione dei 33 minatori cileni, intrappolati per 69 giorni a 700 metri di profondità, dà emozione. È Luis, tecnico esperto, a guidarci nei budelli di un giacimento che le statistiche catalogano come "sicuro". Il fascio di luce della lampada frontale penetra nel cunicolo ma non abbastanza per stemperare la sensazione di isolamento e precarietà.

I primi due minatori che incrociamo dopo una lunga camminata sotterranea ci conducono in un’area più ampia, quella in cui opera un’escavatrice che raccoglie rocce e le scarica sui vagoni di un trenino. Esmeralda, proprio perché molto grande e gestita dal colosso minerario Codelco, è stata teatro di pochi incidenti. La sicurezza è un argomento dibattuto e affrontato: il capitolo "rifugio" è quello più attuale. «Lavoro consapevole dei rischi - dice Juan, uno dei due giovani - anche se sono i giacimenti piccoli quelli che generalmente non rispettano le procedure di sicurezza, né gli standard internazionali. Ammetto però che dopo l’incidente di Copiapò entro qua sotto meno sereno. L’esistenza di rifugi lenisce la mia ansia».

Juan è giovane, ha poco più di 30 anni eppure si muove con lentezza, come volesse amministrare le sue energie, dosare gli sforzi di lottatore vinto dalla fatica. Proprio mentre le gocce di umidità cadono implacabili dal tetto del cunicolo producendo un ticchettio sui nostri caschi, Juan ricorda che il lavoro di minatore è radicato nella cultura del Cile. «Io parlo alla miniera, alla roccia, proprio come un campesino alle sue piante. È un rapporto con la natura, entrambi siamo consapevoli che ci dà da vivere, da molte generazioni».

Eccolo, a poca distanza, il rifugio: pare un piccolo vagone ferroviario. Al suo interno ossigeno, elettricità, uniformi da lavoro, autorescatadores (maschere antigas da indossare in caso di aria contaminata), un sistema di comunicazione con l’esterno e soprattutto acqua e alimenti speciali, ovviamente a lunghissima conservazione. Gli spazi sono molto limitati, due metri quadrati a testa, 40 minatori in tutto. Tutto questo nella miniera maledetta non c’era: Los 33 hanno bevuto l’acqua che filtrava dalla roccia, si sono divisi scatolette di tonno, il minimo indispensabile per non morire di fame per i 17 lunghi giorni che hanno preceduto la loro localizzazione.