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 2010  ottobre 15 Venerdì calendario

IN ASIA TUTTI CONTRO TUTTI SUI CAMBI

Se solo fosse accaduto un paio di mesi fa, non se ne sarebbe accorto quasi nessuno. Ma oggi, con la brutta aria che tira sul mercato internazionale e le accuse incrociate di belligeranza valutaria tra le superpotenze economiche del pianeta, è il classico sasso nello stagno che provoca un mezzo maremoto.

Ieri, le autorità monetarie di Singapore hanno deciso di ampliare la banda di oscillazione della moneta rispetto al paniere valutario che ne determina quotidianamente il tasso di cambio. La mossa ha avuto un effetto domino sui mercati globali. Il dollaro è precipitato ai minimi degli ultimi 10 mesi sull’euro, degli ultimi 15 anni sullo yen, e degli ultimi 28 anni sul dollaro australiano. I prezzi dell’oro sono schizzati ai massimi di tutti tempi. E i corsi del petrolio hanno raggiunto il livello più alto degli ultimi cinque mesi.

Cosa ha innescato questa convulsa reazione a catena? Per distillare una spiegazione plausibile tra le tante, opinabili opinioni degli analisti, la cosa migliore è partire dall’epicentro dello tsunami valutario di ieri. Cioè da Singapore, una piccola ma solida e dinamica economia fortemente export-oriented, e quindi assai sensibile alle fluttuazioni del ciclo mondiale. Nel terzo trimestre 2010, il Pil dell’ex colonia britannica ha rallentato il suo ritmo di crescita al 10,3% (tra marzo e giugno aveva sfiorato il 20 per cento).

Con simili tassi di espansione, hanno saggiamente pensato le autorità monetarie di Singapore, una fiammata inflazionistica non è una questione di se ma di quando. Così, hanno deciso di giocare d’anticipo allargando la banda di oscillazione della moneta, che d’ora in poi potrà godere di una maggiore libertà di movimento sia verso l’alto che verso il basso.

Certo, un’ulteriore rivalutazione del dollaro di Singapore sul biglietto verde americano rischia di penalizzare le esportazioni del paese. Ma in questa fase confusa, concitata e volatile della congiuntura mondiale, anche la piccola città-stato asiatica ha scelto di seguire l’onda in voga di questi tempi in Estremo oriente: utilizzare, se non manipolare, le valute come principale strumento di stabilizzazione domestica. C’è il rischio che l’inflazione rialzi la testa o che una bolla speculativa scoppi sul mercato locale? Allora, come ha fatto ieri Singapore, un aumento pilotato del tasso di cambio serve per tirare i cordoni del credito.

C’è, invece, il rischio che l’economia perda colpi? E allora meglio tenere a freno l’esuberanza della propria valuta e intervenire sul mercato dei cambi per impedirne indesiderati apprezzamenti. L’altro ieri il Giappone ha accusato la Corea del Sud proprio di questo, arrivando perfino ad avanzare dubbi sulla credibilità di Seul come paese ospitante del prossimo summit del G-20.

Ma, come ha replicato polemicamente ieri il governo coreano, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Neanche un mese fa, infatti, per la prima volta dopo sei anni, Tokyo è intervenuta sui mercati valutari per interrompere la cavalcata rialzista dello yen che rischiava di mettere a dura prova la fragile economia nipponica.

Singapore, Giappone, Corea. E la Cina? Di questi tempi, a Pechino parlare di valute è davvero come parlare di corda in casa dell’impiccato. Lo scorso giugno la Cina decise a sorpresa di sganciare lo yuan dal dollaro, al quale la moneta cinese era rimasta ancorata per quasi due anni. Ma da allora, come continuano a sostenere gli Stati Uniti (ma al coro degli scontenti si vanno aggiungendo anche altri paesi, compresi alcuni emergenti), Pechino ha fatto pochissimo per lasciare rivalutare la moneta. Su questa base, una vasta parte del mondo politico americano accusa la Cina di manipolare la propria valuta a fini protezionistici (proprio oggi il dipartimento del Tesoro americano emetterà il suo verdetto sulla questione).

Come se ciò non bastasse a tenere alta la pressione su Pechino, nelle ultime ore è arrivata anche la notizia sulla consistenza delle riserve valutarie cinesi. Al 30 settembre 2010, hanno raggiunto quota 2.650 miliardi di dollari, una cifra pari al Pil francese e superiore a quello italiano. Ma la cosa più sconvolgente è l’aumento registrato da giugno a oggi: in tre mesi le riserve hanno fatto un balzo di 194 miliardi di dollari.

Ieri, per smorzare sul nascere le polemiche (come fa un paese che in tre mesi incamera quasi 200 miliardi di valuta straniera ad avere un tasso di cambio quasi invariato?), Pechino si è affrettata a spiegare le ragioni del sorprendente boom. È tutta colpa delle altre valute internazionali che durante l’estate hanno registrato un forte apprezzamento sul dollaro, mandando verso l’alto il valore nominale delle nostre riserve, hanno precisato le autorità monetarie cinesi. Vero, giacché il valore del surplus commerciale e degli investimenti esteri tra giugno e settembre ammonta a soli 106 miliardi di dollari. I restanti 88, quindi, sono "figurativi". Ma la Cina ora quei soldi ce li ha in tasca davvero e può disporne come vuole. In Asia come nel resto del mondo. E questa è una nuova realtà con cui bisognerà fare i conti.