Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  ottobre 15 Venerdì calendario

IL CORSO DELLA STORIA VISTO CON GLI OCCHIALI

«Aggiustandosi il cappello e torcendo le labbra, Madame Simpson si arrampica con un salto sulla seggiola in posizione alquanto tesa e provocante e, a dire il vero, anche indecorosa». Lo spasimante contempla la bella in tutta la sua magnificenza e, per vederci meglio, inforca un paio di occhiali. Quella che ora scorge in raccapriccianti dettagli è però «una vecchia spaventapasseri», capace per di più di «saltare dalla sua seggiola come posseduta dai demoni, lasciando cadere sul pavimento un universo d’imbottiture e… di ballarci sopra un infernale fandango, in una suprema voluttuosa crisi di rabbia». È la crudele beffa in cui cade il protagonista-narratore del racconto Gli occhiali (1844), uno dei più intriganti di Edgar Allan Poe: novella grottesca e insieme apologo del potere demistificatorio delle lenti , capaci di mandare in pezzi una bellezza fasulla che maschera una dolorosa vecchiaia. Ma la vicenda allude anche alla forza della passione erotica, che ha spinto un giovanotto debole di vista (e forse anche un po’ di cervello) a infatuarsi di un’anziana matrona che infine si manifesta come sua trisavola. Così, il desiderio del nostro spasimante si rivela persino incestuoso, anche se poi le cose sembrano mettersi per il meglio, in una sorta di lieto fine volutamente appiccicato.
Unica vittima resta l’umile paio d’occhiali che finisce scaraventato per terra. Nemesi per altro meritata, perché si tratta di strumento tutt’altro che innocente. Almeno a parere di Arnaud Maillet, storico dell’arte e della visione, in una curiosa e intrigante narrazione, Gli occhiali (Raffaello Cortina), che insiste sul carattere «diabolico» di questa protesi, ora travisatrice della realtà e talvolta pervertitrice delle buone intenzioni di chi ha speso fatica e perizia nel costruire i preziosi apparecchi ottici. Occhiali a perno, a ponte, con stanghette, monocoli, lenti d’ingrandimento e persino cannocchiali e telescopi, per non dire degli occhiali «degli avari o dei gelosi» che servono non solo a vedere quel che altri vorrebbe tener segreto ma a spiare senza essere visti gli oggetti del proprio desiderio.
Come capita persino con quegli «occhiali neri» divenuti a noi familiari per ragioni di salute o di moda, ma a cui l’arte riesce a dare un carattere inquietante: così avviene, per esempio, in un quadro di Giorgio de Chirico, da cui guarda, enigmatico come le sue lenti impenetrabili, il poeta Guillaume Apollinaire. Per non dire del congegno minaccioso celato in ciò che sembra un innocuo binocolo e che invece è, con le sue lame segrete, una macchina per uccidere: succede in un piccolo classico del terrore, il film Gli orrori del museo nero (Arthur Crabtree, 1958), in cui è la protagonista femminile a rimetterci la vista e la vita. Di mio, mi piace ricordare anche la comparsa di un analogo marchingegno in uno dei più inquietanti gialli di Nicholas Blake — al secolo il poeta Cecil Day-Lewis — ove l’oggetto in questione non è immediatamente causa di improvviso decesso ma fa parte comunque della trama oscura che porta inevitabilmente al delitto ( La fossa che inghiotte, pubblicato in italiano il giugno scorso dal Giallo Mondadori).
In breve, Maillet, sulla base di grandi e piccoli pensatori «apocalittici» da Sigmund Freud a Paul Virilio, sostiene che la vera natura di tutti questi apparati è quella di «armi puntate», e ambiguamente: verso l’oggetto della visione, ma anche contro le pupille dello spettatore. A testimoniarlo sarebbe la stessa storia degli occhiali, comparsi — in modo per altro abbastanza oscuro — tra la fine del Medioevo e l’alba dell’Età moderna e a lungo considerati «segni di un’anomalia, un cedimento, un’imprudenza, una mancanza, una degenerazione dell’organo oculare». E la «logica» sottostante è che gli occhiali altro non siano che una protesi: per quanto perfezionata, nessuna protesi, infatti, risolverà mai le cause della sua necessità. Così, gli occhiali da vista e tutto ciò che ne è derivato compensano ma non rimuovono il difetto fisico. Un tempo «la mano che teneva il binocolo alla lunga cominciava a tremare. E le contrazioni del sopracciglio e della guancia per cercare di mantenere un monocolo al suo posto provocavano crampi. Oggi le lenti a contatto, a volte mal tollerate, costituiscono un’ulteriore prova che se la protesi agisce aderente all’occhio agisce anche contro l’occhio». Ecco per Maillet un caso emblematico della «grande illusione della tecnica», che mostrerebbe quanto sia difficile ampliare mediante «artifici» i limiti dell’uomo. Siamo tutti condannati, prima o poi, a fare la figura dei beffati come il protagonista del racconto di Poe o a rimpiangere di non esser più come delle talpe, perché la furia della tecnica ci ha permesso di forzare i dettami della natura? E qualsiasi protesi non mette a nudo la nostra fragilità, rivelandosi come un segno dell’umana finitezza e mortalità? Una delle più sarcastiche immagini del grande caricaturista inglese Thomas Rowlandson (1756-1827), che per altro ha più volte celebrato il voyeurismo, ritrae l’astronomo che punta il suo tubo ottico verso i lontani astri del cielo solo per scorgere… l’immagine della Morte fin troppo vicina.
Tutto vero. E Maillet lo racconta in modo assai efficace. Questa, però, mi sembra solo una parte della storia: quella che considera ogni grande conquista dell’impresa scientifico-tecnica come una tappa dell’asservimento delle creature a una fatalità che in tempi più o meno rapidi inghiotte qualunque buona intenzione, subordinandola a una «logica» extra-umana. Ma basta aver provato cosa significhi sentirsi come delle talpe per riacquistare il gusto della sfida alla natura, dato che, come ha scritto un biotecnologo contemporaneo, le leggi che apparentemente stabiliscono vincoli insuperabili sembrano fatte apposta per essere violate! Quella dei comuni occhiali da vista sino al cannocchiale di Galileo (che lui chiamava «occhiale») e ai grandi osservatori telescopici ci appare un’avventura rischiosa, che proprio per questo richiede al tempo stesso coraggio e modestia. Insuperbirsi delle conquiste della tecnica ha con sé qualcosa di fatuo (e magari di mortifero); ma la capacità di far funzionare delle protesi come artefatti che ampliano il nostro mondo resta uno degli stimoli più potenti di emancipazione fisica e di libertà intellettuale. E anche la mente ha i suoi occhiali, che sono davvero «diabolici», cioè cambiano la percezione del mondo mentre fanno a pezzi la costellazione dei pregiudizi consolidati e indicano orizzonti più ampi e spaziosi.
Giulio Giorello