Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 14/10/2010, 14 ottobre 2010
DA MARCINELLE A SAN JOSE’, QUANDO SI LAVORA ALL’INFERNO
Che sia di rame e oro, come quella di San José, o di carbone, come quella raccontata da Zola in «Germinale» o quella di Marcinelle che l’ 8 agosto 1956 seppellì 262 lavoratori, sempre di miniera sotterranea si tratta: buio, gallerie e vene secondarie, armature per tener su le pareti, facce sporche, polvere, martelli, rumore assordante, caldo e freddo senza mezze misure, paura... Sembra che il tempo non sia passato, e che il lavoro infernale sia rimasto infernale, il peggiore, forse, che si possa immaginare, oggi come ieri. «Stavo con Dio e con il diavolo - ha detto Mario Sepúlveda, uno degli intrappolati cileni - però mi sono aggrappato alla mano di Dio e in nessun momento ho dubitato del fatto che Dio sarebbe venuto a salvarmi». Nessun Dio salvò dal sabotaggio dell’ anarchico Souvarine i minatori di Montsou, protagonisti di Zola. Ma soprattutto, fuori dalla letteratura, nessun Dio salvò gli operai di Marcinelle, folgorati da un cortocircuito (provocato dall’ errore nel caricamento di una gabbia) che in pochi secondi scatenò un incendio devastante. Inferno e basta. Con pochissimi sopravvissuti. Non molto, ma qualcosa è cambiato in oltre cinquant’ anni. Per esempio la tecnologia: nelle immagini dal Cile abbiamo visto computer in superficie manovrati da geologi in guanti bianchi per misurare profondità e movimenti della terra. E camionette al fondo invece dei cavalli che al Bois du Cazier venivano calati giù a vita per trascinare i carrelli carichi di carbone dai cantieri ai pozzi ed erano condannati a restare lì sotto per sempre. Probabilmente sono cambiate anche le tute di lavoro, si sono alleggeriti i martelli e sono cambiati i caschetti. Mentre adesso le lampadine a batteria sono fissate leggere poco sopra la visiera, i nostri minatori in Belgio portavano appese al collo lanterne di tre chili mentre strisciavano seminudi nei cunicoli o picchiettavano contro la roccia. Tutto è più leggero, tranne il buio e la paura, che deve essere stata sempre paura: per Juan, Raúl, Samuel, Esteban, Carlos, Jorge eccetera, come lo fu per i nostri Antonio, Giuseppe, Rocco, Alvaro, Vincenzo, Donato, Esmeraldo, Pantaleone, Carmelo... 136 italiani che non ebbero neanche il tempo di pensare che non avrebbero rivisto il giorno. Un ex minatore di Marcinelle, scampato per un caso dell’ ultimo momento alla «catastròfa», ha confessato che per tutti i suoi ventisette anni di lavoro il «tic tic tic» che faceva l’ ascensore scendendo giù a mille metri gli entrava nell’ orecchio come un incubo insopportabile. Sono cambiati i luoghi dell’ inferno. Non più la Sicilia delle zolfare, il Belgio o la Francia dove approdavano gli emigranti italiani, il Galles in cui Cronin immaginò il suo romanzo sentimental-sociale, «E le stelle stanno a guardare». Quella che di certo non è cambiata è la necessità: un lavoro del genere, come diversi altri del resto, non è una libera scelta, ma questo in particolare (come quasi nessun altro) non può non venire dalla necessità più cupa. A San José erano tutti cileni, tranne un boliviano. Là, nel pozzo maledetto del ’ 56, morirono uomini di dodici nazionalità diverse, in gran maggioranza italiani ma anche belgi, polacchi, greci, tedeschi, francesi, algerini, russi... Globalizzazione ante litteram, delocalizzazione. Grazie ai patti internazionali, che in cambio al Paese d’ origine fruttavano per ogni lavoratore mandato in miniera qualche quintale di carbone, quei poveracci erano arrivati lì con le loro famiglie per vincere la povertà o per morire. Non c’ era via di mezzo. Le televisioni e i giornali scattarono anche per la «catastròfa», quando si cominciò a vedere il fumo nero che usciva dai pozzi. Le fotografie ritraggono donne, con in braccio i loro bambini, attaccate ai cancelli del Cazier, che piangendo imploravano notizie dei mariti davanti a gendarmi apparentemente impassibili. Oggi i pianti dei bambini, per fortuna, sono pianti di felicità e di incredulità nel rivedere finalmente i padri, scampati a oltre due mesi di sepoltura. Questione di fortuna: «Ci sono quelli che hanno avuto fortuna e ci sono gli altri», disse il 9 agosto 1956 Angelo Galvan, soprannominato la Volpe del Cazier. Fu lui il primo a scendere nel pozzo in fiamme per cercare di salvare i compagni: ne portò fuori tre. Fu lui il primo a capire che non c’ era più speranza per nessun altro.
Paolo Di Stefano