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 2010  ottobre 14 Giovedì calendario

L´ULTIMA VITTIMA DEL DIO PALLONE "HO LA LEUCEMIA, FATEMI LAVORARE"

Dice: «Non sono un morto di fame, non reclamo elemosine, però bene non me la passo, sono malato, vivo con la pensione di calciatore da 1460 euro, e devo mantenere due famiglie. Il calcio mi ha abbandonato. Nessuno mi offre uno straccio di lavoro. Le sembra giusto?».
Fu la sua compagna - una donna polacca - tre anni fa a convincerlo a recarsi in ospedale: quella bronchite tignosa, unita a spossatezza cronica, l´aveva insospettita. Il responso si rivelò una sberla: leucemia capelluta. E il nome di Salvatore Garritano, 55 anni, uno scudetto con il Torino, sedici anni di onorata carriera pallonara (la stagione migliore al Bologna di Radice, campionato 1980-81, quello dei cinque punti di penalizzazione: sei gol), si aggiunse alla drammatica contabilità delle vittime del Dio pallone. Lui, per fortuna, è sopravvissuto. «Gli ultimi responsi sono stati incoraggianti, i medici mi dicono che se procedo lungo questa strada per un altro anno e mezzo, potrò cantare vittoria». Sei mesi trascorsi in ospedale, a Siena e Cosenza, dolorosi periodi di chemioterapia: così ha perso il lavoro di procuratore che gli aveva dato da vivere una volta appese le scarpe al chiodo. Con Ernesto Bronzetti, a metà degli anni Novanta, avevano piantato le tende in Spagna, e grazie alla mediazione di Paolo Futre avevano piazzato buoni colpi: Vieri all´Atletico Madrid e José Mari al Milan su tutti. Ora tutto è diventato incerto. «Per sopravvivere ho anche cercato di vendere la mia casa di Cosenza, ma non trovo acquirenti. Sa chi è stato generoso con me nella malattia? Graziani, Gattuso, Prandelli, Delneri, Colomba. Ciccio Graziani mi fece avere dal presidente Cairo una consulenza come osservatore del Torino nel Mezzogiorno: mi davano 550 euro al mese, meglio di niente. Suggerii alcune giovani promesse, ma il Toro se le fece scappare. Dopo sei mesi non m´hanno prorogato il contratto. Gli altri ti dicono tutti sì, ma a parole. Ora io chiedo solo un lavoro, il calcio è stato la mia vita, so fare quello».
C´è una foto bellissima scattata al Comunale nella penombra di un pomeriggio d´inizio inverno: Garritano ha 23 anni. Non sorride. Baffi e sopracciglia folte gli conferiscono un´aria più matura della sua età; sguardo scettico, da Gattopardo. Figlio di un fruttivendolo di Cosenza, morto a 40 anni lasciando orfani otto figli, Salvatore portava qualche soldo a casa facendo il barista quando fu scoperto da Vincenzo Perri che lo segnalò alla Ternana. Aveva 15 anni. Il calcio lo salvò dalla strada. In Umbria arrivò nel 1972, colmo di nostalgia. «Dopo un mese volevo tornare in Calabria, mia madre mi trattenne: "Vuoi fare la fame?"». Era una buona punta, agile nella manovra, insidioso nel tiro. Finì al Torino come la più grande promessa del calcio meridionale dopo Pietro Anastasi, ma davanti a sé, a sbarrargli la strada, trovò i Dioscuri Graziani e Pulici. Vide troppe partite dalla panchina. Quando fu ceduto all´Atalanta, nel ´78, confidò ad Enzo Tortora tutta la sua amarezza: «Ci sono momenti nei quali credi che i tuoi sforzi hanno raggiunto il loro scopo ed invece poi ti si sgretola tutto nelle mani, ed è terribile». Frasi profetiche. Nelle segrete di quel calcio pane e salame si compivano il più delle volte delitti orribili. «Eravamo una generazione di ignoranti, perché prima delle partite prendevamo il Micoren senza chiederci cosa fosse» ha raccontato a Massimiliano Castellani di Avvenire. «"Prendetelo, serve a rompere il fiato"» ci dicevano medici e massaggiatori". E davvero prendevano di tutto nelle lunghe vigilie d´ozio, anche le flebo «piene di zucchero». «Ci fidavamo, anteponendo la carriera alla salute. Io l´ho letto il libro di Carlo Petrini e penso che abbia scritto cose molto giuste». Garritano non accusa nessuno, però i fatti, nella loro nudità, li avrebbe raccontati volentieri al magistrato Guariniello, che indaga sul doping nel calcio. Due della Spoon River degli anni Settanta li conosceva bene perché erano stati suoi compagni di squadra: Beatrice e Gorin. «Un collaboratore del magistrato mi chiamò informalmente, prese qualche informazione, poi non si fece più sentire. Sto ancora aspettando. Sono un uomo deluso, ma non rassegnato, se necessario stringerò ancora di più la cinghia».