Elvira Pollina, Magazine 14/10/2010, 14 ottobre 2010
DIPENDENTI PUBBLICI, TUTTI A SCUOLA PER DISIMPARARE IL BUROCRATESE
Il nome diventa nominativo. Il problema si trasforma in problematica. L’impedimento in condizione ostativa. Il compenso in emolumento. Sono i sintomi della malattia cronica di cui soffre l’amministrazione pubblica italiana: il burocratese. Un linguaggio oscuro che complica la vita alla stragrande maggioranza dei cittadini, costretta a una vera e propria opera di traduzione ogni volta che consulta atti comunali, procedure d’iscrizione all’università o bandi di concorso. Documenti in cui abbondano paragrafi interminabili, frasi gonfie di tecnicismi, espressioni ridondanti e contorte, parole in disuso.
La lotta contro questo virus che si propaga negli uffici, negli ospedali, nelle stazioni ferroviarie, dove verbi come apporre, vidimare, obliterare, espletare e termini come moneta divisionale (gli spicci) o colli (le valigie) fanno bella mostra di sé su moduli e cartelli, va avanti da anni.
Nel maggio 2002 una direttiva del ministero della Funzione Pubblica, allora guidato da Franco Frattini, imponeva per la prima volta in Italia l’obbligo di mettersi nei panni del lettore-cittadino e di scrivere nel linguaggio di tutti i giorni. Sono passati quasi dieci anni, nel frattempo l’Italia si è dotata di un ministero della Semplificazione, ma il burocratese è più vivo che mai. Tanto che un gruppo di esperti dell’Ittig, Istituto di teoria e tecnica della formazione giuridica del Centro nazionale ricerche, ha organizzato un corso rivolto a tutti i funzionari che vogliano guarire da questo male. Si parte il prossimo 25 ottobre, con cicli di lezioni tenuti da giuristi, linguisti, informatici. Una fullll immersion di tre giorni a Firenze, nella speranza che il soggiorno nella terra di Dante possa ispirare gli allievi a un miglior uso dell’italiano.
Ma quali sono le radici del burocratese? «La tendenza a esprimere concetti semplici con frasi lunghe e ampollose è un retaggio della sintassi latina, lingua per secoli usata nel diritto», ammette Angela Frati dell’Accademia della Crusca, che ha collaborato alla stesura del manuale del corso, disponibile online su www.pacto.it. Le lezioni (costo 120 euro, più le spese di soggiorno) hanno ricevuto decine di richieste d’iscrizione da tutta Italia. «Segno che la questione è avvertita dagli stessi dipendenti pubblici», osserva Francesco Romano, ricercatore dell’Ittig e responsabile dell’iniziativa, che prevede anche un modulo di riscrittura di testi amministrativi "malformati". Il vero problema, secondo Romano, è che il personale spesso lavora per prassi.
Si ripescano gli atti dall’archivio e si usano come modello per compilarne di nuovi. La correttezza giuridica è garantita ma resistono anche le formule arcaiche e le perifrasi senza fine. Che spesso rendono difficile an che la comunicazione interna tra uffici della stessa struttura. «È un bei dire che Internet e le nuove tecnologie facilitano il dialogo tra enti e con il cittadino quando poi si ricevono e-mail scritte con termini borbonici».
C’è poi un altro aspetto. Ovvero la paura di usare parole che hanno un significato immediato, come se la quotidianità fosse una colpa. Italo Calvino la denunciò in un saggio del 1965. Scrivere "giungere a una decisione" anziché "decidere" o "portare a compimento" invece di "finire" altro non sarebbe che una forma di terrore semantico, una fobia di dire come stanno le cose. Con la presunzione, magari, che questa anti-lingua porti a un maggior rispetto del ruolo, da sempre martoriato, del dipendente pubblico. Niente di più sbagliato.
Romano non ha dubbi su quale sia il malcostume più odioso del burocratese: «Le sigle non spiegate, come se tutti viaggiassero con un formulario in tasca». Un caso su tutti: la lettera inviata da un’amministrazione comunale a una coppia d’immigrati, cui l’ufficio si rivolgeva utilizzando l’acronimo SSL. «Io stesso ci ho messo un po’ per capire che significava "le signorie loro"».
Può consolarci fino a un certo punto sapere che il burocratese non è un vizio tipicamente italiano ma colpisce anche atti e direttive dell’Unione Europea. E riguarda anche un Paese insospettabile, che ha esportato la sua semplicità linguistica in tutto il mondo: la Gran Bretagna. Qui, dal 1979 il movimento "Plain English" si batte perché i documenti prodotti da enti e imprese usino frasi brevi e si sbarazzino di vocaboli desueti. La sua fondatrice, Chrissie Mahier, una donna semi-analfabeta ma dotata di una tenacia divenuta proverbiale in Gran Bretagna, strappò davanti al parlamento i moduli per fare richiesta di un alloggio popolare, che due anziane poi morte in povertà, non erano riuscite a compilare perché troppo complessi.
La battaglia di "Plain English" contro il politichese continua ancora oggi e ogni anno l’associazione conferisce un premio al peggior comunicatore pubblico. È rimasto nella storia quello assegnato nel 1981 al servizio sanitario nazionale, il quale in un documento usò 229 parole per indicare un particolare tipo di letto.
In Italia, almeno per quest’anno, un premio del genere lo vincerebbe d’ufficio, è il caso di dirlo, Vincenzo Lissa, segretario comunale di Ariano Alpino, in provincia di Avellino. Lo scorso settembre Lissa ha risposto a un dirigente che faceva delle obiezioni sulla stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili con una lettera in cui si parlava di "condotta attizia infeconda di effetti", "panie della scepsi" e "rifugio ottativo", per citare qualche espressione. Un testo talmente astruso da meritare l’attenzione di Gian Antonio Stella, che ha eletto Lissa campione del burocratismo italiano.
Ma il segretario comunale non ci sta. E rivendica che proprio con quella missiva dal linguaggio aulico, in cui, sembra incredibile, denunciava la necessità di sostituire la cultura della forma con quella dei risultati, è riuscito a ottenere l’assunzione di undici precari, operando una "crasi operativa perfetta tra norma e azione". L’applauso è d’obbligo.