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 2010  ottobre 13 Mercoledì calendario

FOXCONN, NE’ SOLDI NE’ DIRITTI NELLA FABBRICA DEI SUICIDI


Che succede alla Foxconn? Dopo l’ondata di suicidi di giovani operai degli impianti di Shenzhen, nel sud della Cina, che l’avevano portata a una sgradevole ribalta, la compagnia taiwanese leader mondiale della produzione elettronica per conto terzi, era tornata nell’ombra, dopo aver promesso considerevoli aumenti di stipendi e una gestione più umana della sua organizzazione del lavoro. Un rapporto diffuso ieri ad Amsterdam, Hong Kong e Ginevra rivela che poco o nulla è cambiato e che i 900mila operai che costituiscono il suo esercito produttivo cinese si ritrovano praticamente allo stesso punto di prima. Da qui anche il titolo dell’inchiesta: «Lavoratori come macchine: organizzazione militare alla Foxconn».
Il dossier è frutto del lavoro di indagine della Sacom (Students and Scholar against Corporate Misbehaviour), organizzazione per la difesa dei diritti del lavoro con sede a Hong Kong. Tra il 22 maggio e il 21 settembre i suoi ricercatori hanno intervistato un centinaio di operai degli impianti Foxconn di Longhua e Guanlan (Shenzhen) e di Hangzhou. Alcuni dei ricercatori sono anche entrati nelle fabbriche, dopo essersi fatti assumere sotto mentite spoglie come operai, constatando così sul campo la situazione. A completare il rapporto anche i dati raccolti da un gruppo di studiosi indipendenti appartenenti a 20 università della Rpc, di Hong Kong e Taiwan che l’estate scorsa si sono costituiti in gruppo di lavoro per osservare le fabbriche della Foxconn in 9 città cinesi.
Un bel lavoro di setaccio che riporta il gigante dell’elettronica (40% del fatturato mondiale oggi, obiettivo 50% entro il 2011 con una forza lavoro di 1,3 milioni di persone) sul banco degli imputati ma che chiede anche ai committenti (Apple, Nokia, HP, Dell, Sony, Sony Ericcson, Motorola) di non chiamarsi fuori dalle responsabilità perché è proprio la loro pressione (sui costi e sui tempi) all’origine di quanto accade in quelle fabbriche.
I suicidi non deturpano più l’immagine della Foxconn. Reti di salvataggio e barriere di filo spinato intorno alle terrazze dei dormitori, l’impegno sottoscritto all’atto dell’assunzione di non compiere simili gesti, l’abolizione dei risarcimenti alle famiglie delle vittime sembrano fino a oggi deterrenti sufficienti. Ma dopo la campagna di relazioni pubbliche a colpi di consulenti e psicoterapeuti, esorcisti buddisti, linee telefoniche speciali, gite aziendali, nella sostanza poco o nulla è stato fatto per rimuovere le cause all’origine di quei gesti disperati che tra il gennaio e l’agosto avevano visto 17 ragazzi a saltare nel vuoto per ammazzarsi (13 ci sono riusciti).
Cosa dice nei fatti il rapporto? La Foxconn si era impegnata a portare a 2000 yuan (215 euro circa) il salario di base per l’85% dei lavoratori alle linee negli impianti di Shenzhen (dove lavorano 420mila addetti) a partire dell’1 ottobre. Ma fino a ieri gli operai non avevano avuto alcuna notifica di ciò, né sanno sulla base di quali requisiti o meriti tale aumento sarà assegnato. A ciò si aggiunga, come ha scoperto la Sacom, che nei messi passati i lavoratori si sono persino visti diminuire sussidi, indennità e bonus.
Neppure le condizioni di lavoro hanno avuto miglioramenti sostanziali. Dopo l’ondata di suicidi la Foxconn aveva stabilito un tetto mensile di 80 ore agli straordinari (che per legge non dovrebbero superare le 36 ore) ma i nuovi sistemi di controllo degli straordinari fanno sì che una parte di questi (la formazione, le riunioni di organizzazione all’inizio e alla fine dei turni, le assemblee sugli obiettivi) non venga neppure conteggiata. Risultato, ai lavoratori non entra in tasca uno yuan in più rispetto ai salari antecedenti a giugno.
Quanto alla durissima organizzazione di stile militare, rimane la stessa. Cultura dell’obbedienza assoluta, punizioni umilianti, aggressioni da parte dei sorveglianti e trattenute sulle buste paga per «cattiva condotta» (una pausa troppo lunga per andare in bagno, non aver rispettato la quota assegnata di produzione etc.). Per non aver stretto bene una vite sul telefonino che stava montando, un operaio si è visto mettere alla berlina e costretto a copiare 300 volte le «massime» dell’amministratore delegato, l’onnipotente Terry Gou (perle di saggezza come «Un ambiente duro fa bene», «Chi ha fame ha la mente chiara», «Il diavolo è nei dettagli»). Lavoratori come macchine, appunto. Dieci ore di seguito alla linea, spesso senza rispettare la pausa di dieci minuti ogni due ore. Guardiani incontrollati e impuniti come se fossero poliziotti, tant’è che se qualcuno chiama la polizia per lamentare una violenza, in tempo reale la denuncia viene girata all’ufficio di sicurezza della fabbrica.
Ultimo tasto dolente, il sindacato. Naturalmente esiste (anche se ci sono voluti 18 anni, dal 1988 al 2006, per avere una rappresentanza interna), e ovviamente è quello ufficiale, l’Acftu. Ma, come affermano tutti gli operai intervistati, manca di credibilità e i suoi delegati non sono certo designati dagli operai. A ciò si aggiunga lo sconcertante particolare che il presidente della federazione sindacale del Foxconn Technology Group funge anche da segretario dell’Amministratore delegato. Molto s’era detto, a suo tempo, riguardo alla necessità di una rappresentanza eletta dai lavoratori. Anche questa lettera morta.
Molto altro dice il rapporto (che si può leggere per intero nel sito www.sacom.hk). Ma quel che sottolinea con particolare vigore è che i grandi marchi dell’elettronica hanno la parte del leone nell’agguantare i profitti che vengono da questo ciclo infernale. La Apple ha un margine del 40% ma chiede continuamente al suo fornitore, la Foxconn (che prende il 4%), di abbassare i costi di produzione. Non è il caso che i consumatori, se proprio non possono rinunciare all’ultimo iPhone, facciano almeno capire a Steve Jobs che lo scaricabarile sugli orridi aguzzini cinesi deve finire?