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 2010  ottobre 14 Giovedì calendario

LA FACCIA COME L’ANIMA

[Intervista a Pierfrancesco Favino]
L’appuntamento per l’intervista è fissato a villa Colle Oppio di Roma, a due passi dal Colosseo, dalla Domus Aurea e da un covo di destra tristemente noto alle cronache. Favino ha una maglietta rossastra, dei pantaloni blu cargo, quelli larghi con le tasche laterali, scarpe da ginnastica e un paio di Ray-Ban. Ci mettiamo a sedere sotto i cipressi di un baracchino, accanto a noi operai cingalesi dalla cadenza romana lavorano alle aiuole. «Ciao Nunzia». Favino saluta la proprietaria, una simpatica vecchietta in vestaglia, ordina un tè freddo e mette il suo BlackBerry sul tavolino. Niente sigarette, ha smesso da un mese «perché era una di quelle cose che non apparteneva al mio corpo, che facevo più per nevrosi che per piacere». Nel nostro servizio, scattato a New York, guida una Confederate.
Cominciamo dalle moto, allora. Quante ne hai avute?
«Ho iniziato con una Yamaha RD 350, a Roma la chiamavano bara volante. Era molto pericolosa. Poi una Honda Four 550, meravigliosa. Infine una vecchia Norton».
Sei un tipo nostalgico.
«Guidare quel tipo di moto mi fa sorridere dentro. È come il bricolage: un antidepressivo. È anche una metafora di vita».
Cioè?
«In moto ho fatto due incidenti, fesserie. Però hanno significato tanto. Sono capitati entrambi in momenti in cui cercavo di superare i miei limiti umani. Mi hanno fatto capire che stavo andando in una direzione che non era quella giusta».
Da dove arriva questa visione?
«Io colgo l’aspetto letterario della vita. Se vedo una persona mi viene in mente una storia, la sua storia, del perché è qui in questo momento, con quelle persone e dove sta andando».
Davanti a noi passa un uomo con sua figlia.
«Vedi quei due? Ecco, adesso io sto pensando che lui potrebbe essere un uomo separato, che non sa dove andare a dormire stanotte perché è in crisi con la moglie, e penso a come la sua storia potrebbe essere una metafora della società di oggi».
Un punto di vista da regista.
«Forse. Ma non è in programma un film firmato da me, non ancora. Io da piccolo avevo tre sogni: fare l’attore, il benzinaio e avere un’edicola. Quest’ultimo però era più legato al fatto di avere le figurine gratis...».
Che infanzia hai avuto?
«Molto normale. La mia è una famiglia medio borghese, con tre sorelle più grandi e io unico maschio. Mia mamma faceva la mamma e mio padre era rappresentante edile. Tutti e due interessati all’arte. La prima volta che sono entrato in un teatro sono rimasto affascinato. Finito il liceo ho provato l’esame per essere ammesso in accademia e l’ho superato. Da lì in poi il mio percorso è stato molto graduale: dai ruoli più piccoli a quelli di primo piano».
Non è stato un percorso facile.
«Un cammino faticoso: è stato difficile convincere i registi ad affidarmi parti più grandi con questo viso che mi ritrovo, che non è esattamente quello dell’attore canonicamente bello. Fino al 2005 sono stato considerato un buon gregario, poi la miniserie sul ciclista Bartali e Romanzo criminale mi hanno sdoganato. Questo percorso, però, oltre a farmi crescere professionalmente mi ha dato molto anche dal punto di vista umano. Io dico che la mia faccia si è adagiata all’anima: significa che ha cominciato sempre di più ad assomigliare a ciò che ho dentro».
Prima di diventare attore per professione che mestieri hai fatto? «Tanti. Da sellare e steccare i cavalli di villa Borghese fino al cameriere, al buttafuori e al pony express».
Da lì fino a Hollywood, dove i registi ti fanno fare sempre una fine infame. Ride. «In Cronache di Narnia mi sono salvato. Ma nelle produzioni americane hai poche speranze: alla fine del film arriva solo il protagonista. Diciamo che se accanto hai Bruce Willis, non hai alcuna possibilità di sopravvivere».
A 41 anni sei ancora considerato un attore giovane. Un tuo collega, Elio Germano, dopo aver vinto la Palma al Festival di Cannes si è scagliato contro il sistema italiano, che ha poca fiducia nei giovani, nel cinema come in ogni altro settore.
«Ha ripetuto quello che molti altri sostengono da tempo. I media gli hanno dato risalto e credito perché l’ha detto dopo aver ricevuto la Palma.
Prendi Benigni: prima dell’Oscar era solo un simpatico giullare, dopo è stato eletto a Vate. Questa si chiama ipocrisia. In Italia si fa finta di ignorare un problema fino a quando non è più possibile ignorarlo».
Alle Iene hai dichiarato che il cinema italiano è provinciale.
«È la società italiana a essere provinciale, non vedo perché il cinema dovrebbe esprimere qualcosa di diverso dalla società a cui appartiene».
Dov’è il problema?
«La mia sensazione è che l’Italia non voglia rappresentarsi in altro modo. L’altro giorno ero in Tunisia e ho litigato con un tassista perché manovrava il tassametro per farmi pagare due euro in più, ma poi ho pensato che questo atteggiamento di disonestà, di non rispetto verso il prossimo, appartiene anche a noi. In Italia si parla tanto della mafia, ma la mafia non è la coppola in testa e nemmeno il politico che si fa eleggere per non andare di fronte al giudice, la mafia è anche pensare che le regole che valgono per gli altri non valgono per te. Un Paese con questo grado di civiltà, con una classe dirigente che pensa solo al proprio benessere, che fa passare come imbecille chi paga tutte le tasse e che quando c’è da tagliare taglia gli stipendi ai poliziotti, ai professori e alla cultura, non può esprimere niente di bello. Come facciamo a costruire una società civile senza sicurezza, formazione e arte? Faccio un esempio».
Vai.
«Prima dell’estate, in un comizio del Partito Democratico, l’attore Fabrizio Gifuni ha fatto presente la situazione scandalosa del teatro e del cinema italiano. Ma i media e i politici non hanno parlato delle argomentazioni di Gifuni, si sono concentrati solo ed esclusivamente sul fatto che aveva iniziato il suo discorso con le parole compagni e compagne. Eravamo partiti per parlare dei tagli, ci siamo ritrovati a parlare di come dobbiamo chiamarci, capisci? Questa è l’Italia di oggi».
Ti senti rappresentato dal ministro della Cultura Sandro Bondi? «Durante il premio De Sica, Giovanna Mezzogiorno per il cinema e Massimo Ranieri per il teatro hanno rivolto un appello al Presidente della Repubblica, chiedendogli di investire sui giovani e di distribuire in modo migliore le risorse finanziarie. Il ministro Bondi è uscito da quella sala dicendo che era disgustato dall’aver avuto di fronte una platea che si piegava in modo servile al capo dello Stato, non capendo minimamente i problemi posti da Giovanna e da Massimo. Le cose sono due: o lui non è il ministro della Cultura o le persone che lavorano nella cultura non possono essere rappresentate da lui. E visto che i ministri non vengono eletti direttamente dalle persone, ci sta che io oggi dica: quella persona non è il mio ministro».
Tu per chi voti?
«Ho sempre votato a sinistra. In questo momento non avrei difficoltà a votare Fini, se si candidasse. Dipende dagli alleati».
Chi è il leader ideale per il centrosinistra?
«Alle primarie potrei votare Vendola. In passato ho sempre avuto delle speranze per persone che poi sono state fatte fuori dal partito stesso».
Tipo?
«Cofferati e Veltroni. Il problema della sinistra è il problema dell’Italia. Invece di parlare dei contenuti, si discute se va ancora bene chiamarsi compagni e compagne».
Chi ti manca di più fra Pasolini e De André?
«Mi manca Pasolini, mi manca Sciascia: persone che avevano la capacità di guardare con infinita onestà e amore alla cosa pubblica, persone con un’intelligenza superiore. Adesso mancano gli intellettuali attivi».
Tipo?
«Umberto Eco».
Cos’è che ti fa più schifo fra il politico che va a trans, quello che organizza festini con le escort e quello che in pubblico parla di società civile e in privato sniffa cocaina?
«Quello che mi fa rabbrividire è che tutto questo sia considerato normale. Per me non è normale che un politico al telefono parli di cocaina, escort e massaggi e che poi si finisca a discutere della correttezza o meno dell’essere intercettati. Il problema è se qualcuno è stato intercettato o se quel qualcuno ha ordinato tre chili di cocaina?».
Zero fiducia nelle istituzioni, insomma.
«Non puoi chiedermi di credere in uno Stato che non è onesto e leale con i propri cittadini. Se la classe politica avesse il coraggio di affrontare punti oscuri come piazza Fontana, Falcone e Borsellino, Ustica o la strage di Bologna, sono convinto che molti cittadini cambierebbero atteggiamento. Io non voglio dare giudizi su cose più grandi di me. So solo che nei confronti del mio Stato sono leale. Perché lo Stato non lo è con me?».
Nozze gay, sì o no?
«Sì».
Adozioni per i gay?
«Sì. Un figlio ha bisogno del calore familiare. Conosco famiglie di eterosessuali devastate e due coppie omosessuali i cui figli sono molto sereni».
Hai mai avuto una relazione omosessuale?
«Una volta c’ho provato... Ero un ragazzino. Anzi, è stato lui a provarci con me. Ma non è stata un’esperienza esaltante. Stavo in quella fase in cui volevo capire che cosa desideravo dalla vita. Avevo paura di essere qualcosa di diverso rispetto a quello che ero e non volevo portarmi il dubbio per tutta la vita. Essere felice dovrebbe essere consentito a tutti».
Liberalizzazione della droga?
«Contrario. Non è possibile in un sistema che non si preoccupa della formazione dell’individuo».
Ti piacerebbe trasferirti in un altro Paese?
«Sì, ma non posso dirti quello che ti ho detto e poi andare via. Non posso sperare che i miei figli crescano in un’Italia migliore e poi farli vivere all’estero o mandarli in una scuola privata. È una questione di coerenza. Se no mi meriterei il politico che parla di famiglia in pubblico e poi in privato si fa i festini con escort e cocaina».
L’intervista è finita. Favino, però, raccomanda: «Riportate esattamente quello che ho detto. Io sono uno di quelli che dice quello che pensa. Non ho paura di questo, temo le strumentalizzazioni. Non vorrei che si finisse a parlare di compagni e compagne e non dei contenuti». Si alza, paga i sei euro dei due tè e s’incammina verso l’uscita del parco. A un certo punto si blocca, torna indietro e lascia due euro di mancia sul tavolo. E se ne va salutando la simpatica vecchietta in vestaglia, strascicando le parole, con quella cadenza smaccatamente romana: «Ciao Nu’».