MASSIMILIANO NEROZZI, La Stampa 14/10/2010, pagina 5, 14 ottobre 2010
Ivan, il terribile serbo l’odio inciso sulla pelle - Ancora non l’avevano preso, e già sapevano chi era
Ivan, il terribile serbo l’odio inciso sulla pelle - Ancora non l’avevano preso, e già sapevano chi era. «Quello è Ivan», dicevano nella notte di Marassi i poliziotti serbi, e il passamontagna nero faceva solo parte del personaggio: più della faccia poterono i tatuaggi, «quasi meglio delle impronte digitali». Per incollargli nome e cognome mica bisognava aprire un passaporto, bastava leggergli la pelle. Specie quella delle braccia, mentre tagliava con le forbici la rete di protezione, lanciava razzi e dirigeva la curva serba. L’ultrà in eurovisione è Ivan Bogdanov, 29 anni, disoccupato ma con il tifo e la violenza elevati a professione, come testimonia la discreta fila di precedenti: rissa, lesioni e violenza a pubblico ufficiale, droga. In fondo, anche la maglietta era una carta d’identità, con quel teschio sul petto e la scritta «Cetnici Sever» sulle spalle: i Cetnici Nord, gruppo ultrà della Stella Rossa, ispirato ai nazionalisti serbo ortodossi, e filonazisti, della seconda guerra mondiale. Pallone e politica, il miscuglio della Jugoslavia prima e della Serbia poi è sempre quello. Come le tigri di Arkan, l’icona della tribù: guarda caso Ivan lo chiamano Coi, che non vuol dir niente, ma pure nomignoli s’appiccicavano i paramilitari del comandante, per mascherarsi l’identità durante stupri e saccheggi nella guerra dei Balcani. Anche la sua biografia scivola via come quella di tanti della sua generazione: scuola fino ai diciott’anni, quando è dovere, poi la voglia di menar le mani supera quella di lavorare e allora l’ufficio diventa lo stadio della Stella Rossa. Qualche rissa, aggressioni alla polizia, droga. Cinque anni fa perquisirono la casa di Belgrado, trovando poco più di 11 grammi di marijuana. Ivan ammise tutto: l’ho comprata per 1.200 dinari, all’epoca una ventina di euro, ma per uso personale. Non è un capo supremo, Ivan, almeno per ora. Ma un blitz del genere è una medaglia pesante nel codice ultrà. La polizia serba, però, lo conosce bene: l’ultima volta, un mesetto fa, l’avevano fotografato in curva durante la partita sul campo del Bsk Borca, piccola squadra di Belgrado. La faccia non si vedeva troppo bene, i tatuaggi sì. Bastava quella mappa. Una granata sul pettorale destro, qualcosina di più complesso su quello sinistro: una croce greca, cioè la croce ortodossa, e dentro i colori nazionali serbi, e dentro ancora lo stemma della Crvena Zvezda, la Stella Rossa di Belgrado. Scritto, per non sbagliarsi, anche sulla schiena: Beograd. Altro marchio sull’avambraccio destro: 1389, che è poi la data della battaglia della Piana dei Merli. Slavi contro turchi, cristiani contro musulmani, nell’immaginario collettivo serbo, la Waterloo per eccellenza: gli Ottomani uccidono tutti, dall’ultimo cavaliere al comandante, Lazar Hrebeljanovic. Lì ha piantato le radici l’ultranazionalismo. Anche il rituale mostrato non mentiva. Saluto romano e poi il tre con le dita della mano, tri prsta in serbo, il richiamo alle tre cose davvero importanti per il fedele estremista: Dio, Patria, Zar. Lo faceva pure Arkan. Magari studia da leader, Ivan, o ha solo eseguito la missione, se quando i poliziotti l’hanno scovato nascosto dentro un pullman, s’è consegnato senza un cazzotto, mentre i compagni facevano guerriglia. Resa più da politico che da ultrà. Come le parole, bisbigliate in carcere, a tarda sera: «Non ho niente contro l’Italia, ce l’ho con la mia squadra. Ma amo la mia patria». Oggi il colloquio con l’avvocato d’ufficio, prima della convalida davanti al Gip o la direttissima che potrebbe chiedere il pm. Gli contestano la violazione della legge sulla violenza negli stadi, il porto illegale di armi e il danneggiamento, mica la resistenza. Reati da cui può cavarsela con una condanna non troppo pesante. Il referto di sette giorni per escoriazioni alla mano destra e la visita all’ospedale San Martino è solo l’obolo di un arresto movimentato, diciamo, come sempre quando scateni l’inferno. Per un sabotaggio politico, è un prezzo che Ivan Bogdanov aveva messo in conto.