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 2010  ottobre 14 Giovedì calendario

PERCHE’ STARE IN LIBANO SE A INCASSARE È TEHERAN?


Il Libano non perderà il suo fascino di scalo del levante, a mezza strada fra Europa e Arabia. Beirut non assumerà i colori della Teheran bassa dei mostazafin, il proletariato senza scarpe della rivoluzione khomeinista. Non è questo l’obiettivo: in politica Hezbollah non ha mai avuto tendenze staliniste né commesso errori fatali. Ma l’arrivo di Ahmadinejad, venuto come un califfo in visita al confine del suo impero, segnala una realtà: abbiamo perso il Libano.
Come l’Iraq e l’Afghanistan, quella che per affettuosa banalità viene chiamata la Terra dei cedri (anche se ne saranno rimasti non più di una decina) non sarà come speravamo. Con modi e per interessi diversi, sono stati investiti miliardi, mobilitati soldati, allestita una politica. Ma come a Baghdad e Kabul, nemmeno a Beirut ci sarà qualcosa di simile alla nostra visione del Medio Oriente, alle nostre aspettative di stabilità regionale e ancor meno una democrazia che assomigli alle nostre. E dunque qui, come già in Iraq e ora in Afghanistan, il dubbio ha una sua legittimità: a cosa serve tenere 1.780 soldati italiani nel Sud del Libano?
La speranza, come accade sempre a Beirut, era nata da una tragedia: l’assassinio di Rafik Hariri, febbraio 2005. Si formò il "14 Marzo", un fronte moderato, interconfessionale e democratico; fu istituito un tribunale internazionale per scoprire assassini e mandanti; la Siria, principale accusata, fu costretta a ritirare le sue truppe. Poi ci fu la guerra fra Israele e Hezbollah: «Le doglie del parto di un nuovo Medio Oriente», la chiamò Condoleezza Rice. La guerra finì senza un vincitore: anche se per Hezbollah non perdere con Israele è stato come una vittoria. Sotto la bandiera dell’Unifil il mondo si mobilitò per dividere i nemici e garantire la rinascita del Libano. L’Italia più degli altri, con 2.400 soldati ora ridotti di circa un migliaio. Ma subito dopo Hezbollah e Iran con la collaborazione più sfumata della Siria, hanno ricominciato a impastare la solita farina libanese.
Il "14 Marzo" vinceva le elezioni. Ma gli altri avevano il potere effettivo delle armi e della geopolitica locale.
Qualcuno che doveva contribuire al nostro successo non ha collaborato. Israele non ha offerto di restituire il Golan, l’incentivo per convincere la Siria a uscire dal fronte con Hezbollah e Iran e rinunciare alla "scelta della resistenza". Mentre noi distinguevamo un Libano filo-occidentale da uno filo-iraniano, nella guerra del 2006 gli israeliani bombardarono tutti, fingendo d’ignorare le complessità del paese e indebolendo le ragioni dei moderati.
Anche il Tribunale internazionale ha fatto più confusione che chiarezza. Prima accusando la Siria e facendo arrestare persone poi risultate innocenti; ora puntando il dito contro Hezbollah. Incapace di restare al di sopra del fango di spie e mestatori, il tribunale ha perso la credibilità necessaria. Anche se l’avesse mantenuta, Hezbollah avrebbe minacciato di dare fuoco all’intero Libano se non fossero cadute le accuse. Ora che non l’ha più, il partito sciita di Dio sente di essere ancora di più padrone del paese. Armare e addestrare l’esercito libanese per contenere la forza militare di Hezbollah, come prevedeva il piano A occidentale dopo la guerra del 2006, è un’illusione. Un piano B non esiste.
Il segno della sconfitta è nelle parole di Saad Hariri, primo ministro e orfano di Rafik: «Per un periodo di tempo abbiamo accusato la Siria di essere dietro l’omicidio. Era un’accusa politica e quest’accusa politica è caduta». Saad non è convinto che la Siria sia innocente: la questione è ormai irrilevante. Riconosce che le condizioni politiche per accusarla non esistono più.
Forse dovremmo ammettere anche noi che sono venute meno le ragioni che hanno spinto l’Italia a garantire il contingente più numeroso fra i 31 paesi che partecipano alla missione Unifil. Non è un fallimento: quando le condizioni c’erano, aveva un senso. Il generale Claudio Graziano, fino all’inizio di quest’anno comandante di tutti i 15mila caschi blu (ora 11.500), sosteneva correttamente che i suoi uomini davano alla politica il tempo di trovare una soluzione al conflitto. Le brigate che a rotazione sono state impiegate nel sud del Libano hanno fatto un buon lavoro, compatibilmente con le differenze delle regole d’ingaggio di ogni contingente nazionale.
Ma la politica non ha trovato una soluzione: Ahmadinejad visita il Libano come un vincitore; Hezbollah mantiene come prima il suo potere al sud e lo ha rafforzato a Beirut; l’esercito libanese non sarà mai capace di disarmarlo e prenderne il posto; la guerra con Israele può ricominciare in ogni momento con o senza l’Unifil alla frontiera. Abbiamo una data per il ritiro dall’Afghanistan dove ha un senso esserci. È tempo per fissare una exit strategy anche dal Libano, dove stare in così tanti non serve più.