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 2010  ottobre 14 Giovedì calendario

BELGRADO E L’OMBRA DI UN COMPLOTTO


Per qualche ora, l’ultrà incappucciato Ivan Bogdanov «Coi» s’è preso in ostaggio più di uno stadio: s’è preso in ostaggio un Paese. Che altro pensare, quando il viceministro serbo Slobodan Homen dice ai microfoni di Radio B92 «Qualcuno vuole mostrare che la Serbia non è pronta a entrare nell’Ue»? Di più, dice, «lo scopo di tutto questo caos è impedire che le grandi compagnie perdano i loro monopoli, come accadrà quando il business si aprirà all’Europa»? E dunque, possibile che Genova si sia trovata al centro di un Grande complotto politico? Hooligan e criminali e cospiratori serbi all’opera — nella più classica trama balcanica — per deragliare un’altra volta il treno verso l’Europa? Anche il nostro sottosegretario Alfredo Mantica, in visita a Belgrado, la mattina sembra crederci: «Gli incidenti si inseriscono in uno scenario politico».

«Calma — risponde al telefono da Belgrado l’analista Bratislav Grubacic — Questi sono dei primitivi. Violenti, organizzati, ma primitivi. Non certo menti raffinate in grado di rovesciare un governo o di avere un piano politico». Il guaio è, come ammette l’ex ambasciatore a Roma Miodrag Lekic, l’uomo che negli 87 giorni dell’attacco Nato nel 1999 sul Kosovo prestò il suo volto alla tv italiana per difendere la causa di Belgrado, che «primitivi o no, in diplomazia questi incidenti contano: e la Commissione di Bruxelles ora potrebbe chiedere conto anche del vergognoso scempio dello stadio di Genova». Magari, inasprire le richeste. Rialzare le asticelle per Belgrado, per quanto al Corriere continuino ad arrivare lettere come quella di Zorica Rajic: «In nome del popolo serbo, vi chiedo scusa. E vi prego di credere: non siamo così».

La Serbia ha visto scorrere troppo sangue, perché la fantasia non corra e ricordi. Le pallottole del cecchino che hanno steso il premier Djindjic, solo perché voleva un Paese moderno. E quanto assomigliano i muscoli del suo assassino, il cecchino mercenerio Legija, al corpo tatuato di scritte nazionaliste dell’ultrà Ivan «Coi»! «Eppure, non è così — dice ancora Grubacic —: i mercenari di allora avevano referenti politici chiari. Questi hooligan, anche se inneggiano alle Tigri di Arkan, no».


Di questi hooligan, sbarcati con un’avanguardia a Genova, la polizia serba traccia questo profilo: 5.000-6.000 in tutto. Teppisti, criminali, alcuni reduci di guerra. Decine di neonazi. Il nucleo è la curva Nord (Sever, com’era scritto sulla magliettà di «Coi») della Stella Rossa, quella che un tempo era il regno di Arkan; ma all’occorrenza non disdegnano di arruolare gli odiati ultrà avversari dei grobari del Partizan. C’è una data, che è lo spartiacque nel tifo violento serbo: il 22 marzo 1992, derby Partizan-Stella Rossa. E lì che il capotifoso della Zvezda Arkan, al posto dei cori, scandì «Vukovar: 30 chilometri»; «Vukovar, 10 chilometri»; «Vukovar, siamo arrivati», con il nome della città croata che si piegherà di lì a poco alle sue Tigri. Fu lì che sugli spalti comparvero i segnali stradali delle città croate cadute e che i tifosi del Partizan si unirono agli inni nazionalisti degli avversari. Fu quel giorno che la guerra conquistò gli stadi, e il tifo si mischiò definitivamente alla politica.

In queste settimane, gli eredi di quel gruppo hanno inscenato una protesta per il Kosovo, il pestaggio dei gay a Belgrado domenica scorsa, la trasferta di Genova. Hanno soldi per tappezzare i muri di Belgrado, pagarsi i pullman. Gira con insistenza anche la voce che dietro all’immonda sceneggiata di Genova ci sia lo zampino di Darko Saric, boss che importa cocaina dall’America Latina ricercato dall’Interpol, e finanziatore degli ultrà. Insomma, saranno anche finiti i tempi di Arkan, ma il tifo serbo è ancora in grado di proiettare ombre che non calano solo sugli stadi.