Toni Capuozzo, Riders n.35 Ottobre 2010, 12 ottobre 2010
ILLUSIONI DI ETERNITA
[Capuozzo sul tatuaggio]
Adesso che l’estate è finita e ci siamo rivestiti possiamo anche parlarne. La spiaggia è un buon osservatorio sui nostri corpi e, dunque, sui tatuaggi. Non ho nulla contro i disegni sulla pelle, anche se vengo da un tempo in cui erano cosa da galera, da marinai, da biker americani. Quando è stato il momento, ho ricordato ai miei figli solo una cosa: sono indelebili, resteranno sul corpo per sempre. So bene che questo è il fascino primo del tatuaggio: per sempre. Assediati da precarietà e mutamenti, dalla velocità e dalla fragilità di tutto, quel per sempre, poco applicabile ai rapporti, alle cose e perfino a noi stessi, aiuta, dà forza. Ma, ai miei figli, ho fatto un esempio. Anch’io porto un tatuaggio, ormai vecchio e scolorito, sul braccio destro. Me lo feci incidere 30 anni fa, o giù di lì, in una cittadina degli Stati Uniti di cui non ricordo nemmeno il nome. Avevo visto il film Papillon, con Steve McQueen e Dustin Hoffman, e la storia dell’isola carcere e della fuga così a lungo sognata, cercata, preparata, mi aveva conquistato. La farfalla mi sembrava un marchio indelebile di fuga, di libertà, di indisponibilità a rimanere inchiodati a un ruolo. Ed erano proprio le idee che mi occupavano, in quel tempo. Così mi feci tatuare una farfalla, piccola e colorata. Oggi, quando vado in spiaggia, faccio la figura di un tenero damerino, di un animo dolce e lieve. Ciò che non sono. In mezzo a tatuaggi molto più grandi, in genere tribali, teschi, draghi, serpenti o pantere, sembro l’illustrazione ambulante di una favoletta per bambini. Non me ne dispiace troppo. Sono così abituato a quel piccolo tatuaggio da non farci caso, spesso me ne dimentico e mi sorprendo quando qualcuno mi chiede come mai. Ma una cosa so: che chi guarda quel tatuaggio e vuole capire qualcosa di me, difficilmente afferra il senso che io ho dato a quell’incisione sulla mia pelle, tanti anni fa. E questo è l’altro punto: che spesso ci facciamo tatuare non per ricordare a noi stessi, come facessimo un nodo sul fazzoletto del nostro corpo (del resto ormai nessuno usa fazzoletti che non siano di carta, e di certo non come promemoria), ma per comunicare qualcosa agli altri, per abbellire o personalizzare la vetrina che il nostro corpo è di noi stessi. Il problema è che la vetrina cambia e si impolvera. Un tatuaggio tribale in fondo alla schiena si stende sui fianchi, perché la vita si allarga, quando la vita si allunga. Un tatuaggio truce sul braccio o sulla spalla si ammorbidisce su muscoli meno tonici, ammansito dal tempo. Certo, le frasi restano e i numeri anche. I nomi dei figli saranno sempre uguali, anche se nessuno ci garantisce che lo rimangano anche i figli. I nomi di una donna
o di un uomo, quelli possono decadere, nonostante il marchio della promessa eterna. Ecco, l’eternità: se è questo che promette il tatuaggio, qui sta anche la sua minacciosa illusione. Perché non siamo eterni e il tatuaggio dura quanto duriamo noi, diventa solo un segno particolare, quasi da identikit, un qualcosa che assomiglia alla scheda di un antropologo forense intento a identificare un corpo senza ombra di dubbio, o al dettaglio nella schedatura del ricercato, al punto da rivelare il senso autentico del tatuaggio: l’unicità. Siamo solo noi, senza possibilità di confusione o di equivoco, identificabili davanti a tutti (c’è un tatuaggio che, non so quanto consapevolmente, testimonia ironicamente quest’identificazione: il codice a barre, come i prodotti alla cassa del supermercato), come in un urlo. O, magari, identificabili solo per chi vogliamo, quando il disegno è in parti nascoste, intime, come in un sussurro. Naturalmente il marchio di fabbrica ha anche qualcosa di minaccioso, se è imposto, piuttosto che scelto. Basti pensare ai tatuaggi da campi di concentramento. Ma, ormai, è spesso soltanto una moda. E qui sta il bello, perché le mode dovrebbero essere passeggere e i tatuaggi non lo sono. Così, a volte, mi piace immaginare spiagge che non vedrò, tra 50 anni, con corpi anziani istoriati di minacce e promesse in genere smentite dalle stagioni della vita. Ai miei figli, in un ultimo penoso tentativo, ho ricordato che oggi si nota di più un corpo senza tatuaggi, che un corpo tatuato. Ma facciano come vogliono (la più grande si è fatta tatuare due innocenti stelline). Dovessifarmeloio, unaltrotatuaggio,oggi sceglierei un’ancora. Perché ha qualcosa del marinaio che avrei voluto essere e perché è una radice mobile, un modo di considerare la voglia e l’assenza di legami insolvibili, qualcosa di solido e ramingo nello stesso tempo. Ma non ho più l’età per farmi tatuare ancora.