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 2010  ottobre 12 Martedì calendario

BACH E VIVALDI DALL’ALBA AL TRAMONTO SULLE ANDE NELLA CITTA’ DELLA MUSICA —

Il dialogo fra gli strumenti comincia di primo mattino, quando dalle finestre aperte il flauto dà il buongiorno alla viola, clarinetti e violini fanno gargarismi per schiarirsi la voce e infine sua altezza il trombone mette tutti a tacere con la sua nota più regale e cavernosa. Ma questo, da almeno 300 anni, è il destino di Urubichá, una borgata di 6 mila abitanti nel Nord-Est della Bolivia, ai bordi della foresta amazzonica. La città della musica.
Come altre volte, la sua emancipazione è avvenuta per gradi, non manca tuttavia di sorprendere che in questa piccola comunità di contadini della tribù dei Guarayos, dove la luce elettrica è arrivata appena quattro anni fa, il rapporto con l’arte dei suoni sia una consuetudine profondamente radicata nella vita quotidiana e che le due orchestre locali (più il coro) possono contare sull’entusiasmo, infantile e giovanile, di 270 elementi, con età dagli otto ai vent’anni.
Nella colonna sonora che accompagna le vicende dolorose e spesso cruente del Sudamerica, la musica barocca occupa un posto non marginale: comincia a diffondersi nel 1700 quando un gruppo di gesuiti sbarcò in Bolivia per evangelizzare gli indigeni o, meglio, «i selvaggi», come erano allora sbrigativamente definiti dai missionari cristiani, ansiosi di esperienze esotiche. Coi suoi sacerdoti, la Chiesa inviò negli angoli più remoti del pianeta anche un sacco di strumenti e spartiti musicali che consentissero di far vibrare sulle Ande il repertorio classico di Bach, Händel, Vivaldi, Mozart.
I bambini e i ragazzi che oggi incontri per le strade polverose di Urubichá col violino o il cello a tracolla invece dell’arco e delle frecce avvelenate dei loro antenati stanno a confermare che il passato è stato definitivamente sepolto insieme alle sue leggende: come quella secondo cui, per andare in paradiso, occorreva attraversare il fiume sdraiati sul dorso di un coccodrillo strofinando con grazia il violino. Se appena sbagliavi una nota, finivi in acqua tra le fauci dell’indignato alligatore, evidentemente provvisto di sensibilità musicale.
«Qui la gente ha la musica nel sangue e questo è certamente un popolo che ha molto talento», afferma perentorio Jorge Eduardo Aranda, musicista cileno cinquantenne diplomato al conservatorio La Serena e con tanto di laurea in pedagogia conseguita all’Università del Cile, che a 16 anni, lo zaino pieno di sogni e di progetti, prende il treno per Santa Cruz, in Bolivia, e dal maggio di quest’anno è l’acclamato direttore dell’Orchestra giovanile di Urubichá. Allo stesso tempo rivendica il suo onnivoro appetito per ogni genere di musica, asserendo di essere anche un «musicista jazz»: il che non significa necessariamente la rinuncia ai classici.
Ne abbiamo subito conferma. Nel grande salone dei concerti di Urubichá sta infatti provando con un’orchestra ridotta (gran parte dei ragazzi sono ancora in vacanza) il preludio della «Carmen» di Bizet, un’opera che non sembra avere alcun rapporto col Barocco e i madrigali. Dirige senza bacchetta, con le mani. È inquieto, nervoso. Interrompe di continuo e fa rifare questo o quel passaggio, riprendendo ora i fiati ora gli archi con sentenze definitive come «Forte è forte, piano è piano»: ma alla fine le battute che introducono la Sigaraia di Siviglia e il Toreador andaluso hanno il suono e i tempi gusti.
Nell’intervallo, Jorge si rilassa: «Da 14 anni — dice — abbiamo la fortuna di avere un Istituto di musica che consente di dare ai ragazzi un’adeguata educazione musicale: qui da noi, i bambini crescono ascoltando musica fin dal mattino quando il loro papà gli dà la sveglia con l’acuto del suo strumento, fagotto o tromba che sia. E anche se l’obbiettivo finale rimane quello del repertorio classico, un grande spazio è riservato alla musica folcloristica regionale, alle canzoni e ai ritmi chiamati, nella lingua dei Guarayos, "taquirari", "chobena" o "carnaval", che esprimono l’animo, le speranze, le sofferenze di quella antica tribù».
Gran parte del merito per aver fatto di questa cittadina amazzonica una piccola (ma solo per dimensioni fisiche) capitale della musica va attribuita a Padre Walter Neuwirth, un francescano che nella seconda metà degli anni Sessanta andò a stabilirsi a Urubichá: luogo dove non poteva sentirsi estraneo dal momento che lo avevano fondato i suoi stessi confratelli nel 1840, la bellezza di 170 anni fa. E la sua massima aspirazione era di farne un centro di cultura musicale dell’America latina: con l’aiuto di un violinista boliviano, Ruben Darío, riuscì a reclutare decine di bambini per i quali il trombone, la viola, il flauto, la zampogna e il tamburo erano ancora giocattoli. Bisognò attendere fino al 1996 perché fosse aperta ufficialmente in città la prima scuola di musica.
«Quella che hai appena ascoltato nelle prove della "Carmen" — dice il Maestro Jorge — è l’Orchestra giovanile composta da 50 elementi, di cui il 15% sono ragazze. C’è poi l’Orchestra infantile di cui fanno parte 45 voci bianche tra bambini e bambine. Non mancano problemi economici, ma vederli in giro questi ragazzi, con gli strumenti o davanti al leggio mentre suonano o cantano, o quando si imbarcano per le tournée in Bolivia e qualche volta all’estero e strillano di gioia come uccelli impazziti, è già una festa».
Suor Ludmila Wolf, 73 anni, responsabile della Scuola di musica, arrivò a Urubichá nel ’68 dal natio Tirolo. Austriaca, rigorosamente trincerata nel grigio abito monacale, parla con incredibile velocità mentre i suoi occhi fanno scintille sotto le lenti. Nonostante la lunga permanenza, non ha rinunciato al suo anacronistico atteggiamento: i Guarayos sono gente di bassa moralità e vanno ancora in giro «ignudi» anche se sono stati regalati chilometri e chilometri di tela per vestirli. È orgogliosa dell’Orchestra giovanile ma non condivide le aspirazioni di chi si preoccupa solo e soprattutto dei suoi successi in campo internazionale. «Per me — taglia corto — l’obbiettivo principale è di formare dei buoni musicisti».
Oltre alla musica, l’altra risorsa di Urubichá è l’artigianato, i cui prodotti sono esposti, in cromatica accozzaglia, nel negozio adiacente alla abitazione di Suor Ludmila, dove trovi di tutto, borse, tovaglie, tende, canestri, mobili, arnesi domestici. «Musica è artigianato — è il commento del Maestro Martin Chuve — sono le due cose che oggi rappresentano la cultura guarayo. Se in Bolivia uno vuole comprare una amaca di alta qualità, tutti sanno che solo i Gurayos sono in grado di farla».
Non è possibile valutare, in un breve soggiorno, se la predominante etnia dei Guarayos crei dei problemi concreti nella società boliviana: all’apparenza tutto fila liscio. Ma dalle ricerche fatte dall’Università Autonoma di Santa Cruz risulta ad esempio che il 90% della popolazione di Urubichá parla il guarayo come prima lingua, mentre il 70% si considera fluentemente bilingue. Le pressioni esercitate negli anni dai missionari cristiani a favore dell’idioma di Cervantes non hanno avuto successo, cosa che pare dispiaccia molto a Sorella Ludmila. Nelle scuole elementari il sillabario è guarayo, nelle secondarie spagnolo: ma secondo le statistiche, neanche la metà degli adulti è riuscita a terminare le elementari.
Dove la musica trova un legame indissolubile con l’artigianato è nell’arte dei liutai, che avvicina Urubichá a Cremona. Eccomi al cospetto di Juan de la Cruz, un mingherlino di 42 anni che sta lavorando sotto un portichetto. Sono 15 anni che costruisce violini, al ritmo di uno al mese. «Non saprei fare altro — dice —. Ho cominciato da ragazzo e non ho più smesso». Uno di questi violini è già quasi pronto, lì sul bancone, è di legno di mara e di cedro. Vende i suoi Stradivari a 100/120 dollari l’uno e mi saluta con un disarmante sorriso.
Meno allegro, anche se più giovane (22 anni), Alejandro Cunaedi: imparò l’arte dal padre, decano degli undici liutai di Urubichá, e sembra soddisfatto: «Si guadagna bene — ammette —. Abbiamo una cooperativa e una pagina web. Ci chiamano da Santa Cruz per fare ordinazioni, ma abbiamo anche clienti stranieri, che vengono dal Giappone, dalla Germania e dall’Italia, perché i nostri violini hanno un suono speciale. Di rado esco di casa o vado a ballare. Adesso sto finendo il collo dello strumento, che è la parte più difficile…». Ma lo sai suonare il violino? « No señor, pero me gustaria… mi piacerebbe molto».
Comune in questi ragazzi e ragazze (alcune delle quali stanno ancora a pettinare i capelli delle bambole) è la determinazione a diventare dei veri musicisti, piuttosto che affermarsi come divi e avere successo commerciale e mondano. «La musica è la mia vita — dice Reina, 16 anni, snella e delicata, alle prese col trombone —. Con l’Orchestra sono stata in tournée in Bolivia, ma anche all’estero, in Brasile». Ha appena finito di soffiare dentro il suo strumento le turbinose note del preludio di «Carmen» che alla fine diverranno cupe come un canto funebre e mi viene spontaneo chiederle con quale animo ha affrontato una partitura così diversa. « Para
mi es lo mismo — è stata la stupefacente risposta —, per me è la stessa cosa».
Richard è invece spaventosamente serio per i suoi 10 anni. «Voglio diventare un professionista — attacca —, studiar musica e poi tornare qui per insegnarla agli altri». Figlio di un maestro e di una maestra elementare, ha cominciato a suonare il violino a 7 anni. A casa ascolta musica barocca ma anche il repertorio folclorico boliviano e si esercita più di quanto gli venga imposto dagli insegnanti. Autore preferito? Neanche una piega: «Beethoven, il migliore di tutti. Niente di più sublime al mondo della Nona».
La passione infantile di Bernal, 11 anni, si è subito concentrata sul flauto traverso, sono ormai 4 anni che se lo fa scivolare tra le labbra. Una famiglia di artisti la sua. Il fratello maggiore fa il pittore e la sorella Karen, tredicenne, suona il violino nell’Orchestra infantile. Papà (agricoltore) e mamma (donna di casa) sono molto orgogliosi di aver messo al mondo tre piccoli geni.
E che dire di Melfi, 14 anni, che già da cinque suona il violino nell’Orchestra, mentre al tempo stesso si esibisce nel coro con voce di contralto? Lo scorso novembre fece una tournée in Germania, cantarono una messa in latino ma ciò che ricorda è soprattutto il freddo. Se il coro è bello, il violino è magico. E me la fa sentire la magia del suo strumento, appartandosi sotto il portico di casa. Alta, snella, ha i capelli di puro velluto nero a coda di cavallo. In questi giorni, sta mettendo in gola (come si dice in gergo) la «Carmen» che disinvoltamente definisce «molto allegra», scuotendo nella tomba le ossa di Bizet e Mérimée, gli snaturati «genitori» della sigaraia.
Bernardino, infine, è l’ultimo dei miei felici incontri a Urubichá. Ventiduenne, è il veterano dell’Orchestra, con otto anni di presenza senza mai una diserzione. Ora s’è andato a cacciare in una casupola grande poco più di una garitta, da dove il suo violino sprigiona un’aria dolente, spezzata a tratti da un turbine di note festose. Vorrebbe forse essere un messaggio di congedo. Chissà. Ma l’angoscia è in agguato. Non gli basta più quello che è né quello che è stato. E infine sbotta: «Il mio sogno è di entrare a far parte di una grande orchestra. Come quella di Caracas, ad esempio, diretta dal venezuelano Gustavo Dudamel, il più bravo di tutti».
Conosco Dudamel. Lo incontrai a Milano nel novembre del 2006 quando venticinquenne debuttò alla Scala col «Don Giovanni» di Mozart. Come il genio di Salisburgo, il giovane Gustavo andava sempre di fretta. Un’infanzia, la sua, che non sembra poi tanto diversa da quella dei rampolli della Scuola di Musica di Urubichá: «Papà — raccontava — mi suonava la ninna nanna col trombone… Da bambino mettevo i cd che straripavano di sinfonie e mimavo i più grandi direttori d’orchestra».
Squallida la casa di Bernardino, una specie di capannone ingombro di cose, panni sudici, reti da pesca, bidoni d’acqua sporca e, ai lati, i rigagnoli puzzolenti delle fogne: nella stanza da letto non ci sono finestre e forse anche il Sacro Cuore, rimasto solo sulle pareti deserte, ha voglia di scappare.
Ettore Mo