Mario Vargas Llosa, Corriere della Sera 12/10/2010, 12 ottobre 2010
I MIEI PRIMI QUATTORDICI MINUTI DA NOBEL
Quel giorno, come tutti i giorni da quando, tre settimane fa, siamo arrivati a New York, mi sono alzato alle cinque del mattino e, cercando di non svegliare Patricia, sono andato a leggere in salotto. Era ancora notte fonda e le luci dei grattacieli tutt’intorno avevano l’aspetto inquietante di una gigantesca nube di coleotteri luminescenti pronti a invadere la città. Dopo circa un’ora avrebbe cominciato ad albeggiare e, con il cielo limpido, le prime luci avrebbero illuminato il fiume Hudson e il Central Park, con i suoi alberi che in autunno si tingono di giallo oro, uno spettacolo incantevole che mi regalano ogni mattina dalle finestre dell’appartamento. A un certo punto ho avvertito la presenza di Patricia in salotto. Si avvicinava con il telefono in mano e con un’espressione che mi ha spaventato. «Qualche tragedia in famiglia», ho pensato. Ho preso l’apparecchio e, tra i sibili, gli echi e i ronzii elettrici, ho sentito una voce che parlava in inglese. Non appena sono riuscito a distinguere le parole «Swedish Academy» la comunicazione si è interrotta. Siamo rimasti in silenzio, guardandoci senza dire nulla, finché il telefono ha ripreso a suonare. Adesso la voce arrivava chiara. Il signore all’altro capo del filo ha detto di essere il segretario dell’Accademia svedese, che mi avevano assegnato il Premio Nobel della letteratura e che la notizia sarebbe stata pubblicata dopo quattordici minuti. Avrei potuto ascoltarla in televisione, alla radio e su Internet.
«Bisogna avvisare Álvaro, Gonzalo e Morgana» ha detto Patricia. «Meglio aspettare che sia ufficiale» ho risposto. E le ho ricordato quando, molti anni fa, a Roma, ci avevano raccontato il brutto scherzo che alcuni amici (o piuttosto nemici) avevano fatto ad Alberto Moravia facendosi passare per funzionari dell’Accademia di Svezia e congratulandosi per il premio. Lui aveva avvisato la stampa e la notizia si era rivelata una farsa di cattivo gusto. «Se è vero, in questa casa ci sarà il caos — ha detto Patricia —. Meglio che ti fai subito la doccia».
Invece sono rimasto lì in salotto a osservare le prime luci della mattinata newyorchese affiorare tra i grattacieli. Ho pensato alla casa di calle Ladislao Cabrera, a Cochabamba, dove ho trascorso la mia infanzia, e al libro di Neruda Venti poesie d’amore e una canzone dispe
rata che mia madre mi aveva proibito di leggere e che tenevo nascosto nel comodino (il primo libro proibito che lessi). Ho pensato quanto le avrebbe fatto piacere la notizia, se era vera. Ho pensato al grande naso e alla testa calva e lucida di nonno Pedro, che scriveva versi nei giorni di festa e spiegava alla famiglia, quando io mi rifiutavo di mangiare: «Per il poeta il cibo è prosa». Ho pensato allo zio Lucho che, in quell’anno felice che trascorsi nella sua casa di Piura, l’ultimo anno di collegio, scrivendo articoli, racconti brevi e poemi che pubblicavo a volte su La Industria, mi incoraggiava continuamente a perseverare per diventare uno scrittore, perché, forse parlando di se stesso, mi assicurava che non seguire la propria vocazione voleva dire tradirsi e condannarsi all’infelicità. Ho ricordato il debutto, quello stesso anno, nel Teatro Variedades di Piura, della mia opera La huida del Inca (la fuga dell’inca), che il mio amico Javier Silva pubblicizzava a gran voce per le strade con un grande megafono dal tetto di un camion, e alla bella Ruth Rojas, la Vestale dell’opera, della quale ero innamorato in segreto. Ho pensato a Lucho Loayza e Abelardo Oquendo, gli amici dell’adolescenza e alla rivista Literatura, di cui pubblicammo appena tre numeri, al nostro manifesto contro la pena di morte, all’omaggio a César Moro e alle feroci discussioni per stabilire chi fosse più importante fra Borges e Sartre. Io sostenevo il secondo e loro il primo e, ovviamente, avevano ragione loro. Fu allora che mi diedero il soprannome (che io adoravo) «il prode piccolo Sartre». Ho pensato al concorso de La Revue
Française che vinsi nel 1957 con il mio racconto La sfida, con il quale mi aggiudicai un viaggio a Parigi dove trascorsi un mese di felicità assoluta, alloggiando presso l’Hotel Napoléon; alle due parole che scambiai con Albert Camus e María Casares all’ingresso di un teatro dei Grands Boulevards, e ai miei disperati e sterili sforzi per essere ricevuto da Sartre, anche se solo per un minuto, per vederlo in faccia e stringergli la mano. Ho ricordato il mio primo anno a Madrid e i dubbi avuti prima di decidermi a mandare i racconti I capi alla commissione Premio Leopoldo Alas, istituita da un gruppo di medici di Barcellona, presieduta dal dottor Rocas e di cui faceva parte il poeta Enrique Badosa, grazie ai quali provai l’immensa gioia di vedere il mio primo libro stampato. Ho pensato che, se la notizia era vera, avrei dovuto ringraziare pubblicamente la Spagna per tutto quello che le dovevo, visto che senza lo straordinario appoggio di persone come Carlos Barral, Carmen Balcells e tanti altri, di editori, critici e lettori, i miei libri non avrebbero mai avuto la diffusione che invece hanno ottenuto.
E ho pensato alla fortuna incredibile che ho avuto nella vita per aver seguito i consigli dello zio Lucho decidendo, a ventidue anni, in quella pensione di Madrid della calle del Doctor Castelo, in qualche momento dell’agosto 1958, che non sarei diventato un avvocato ma uno scrittore e che, da allora, anche se avessi dovuto vivere senza un soldo in tasca, avrei organizzato la mia vita in modo da dedicare la maggior parte del tempo e delle energie alla letteratura, e avrei cercato solo lavori che mi avrebbero lasciato il tempo libero per scrivere. Era stata una decisione alquanto fantasiosa, ma mi fu di grande aiuto, almeno psicologicamente, e credo che, a grandi linee, riuscii ad attuarla durante gli anni di Parigi, visto che i lavori alla scuola Berlitz, all’agenzia France Presse e alla Radio televisione francese mi lasciarono sempre qualche ora al giorno di tempo per leggere e scrivere.
E ho pensato allo strano paradosso di aver ricevuto tanti riconoscimenti, come questo (se la notizia non era uno scherzo di cattivo gusto), per aver dedicato la vita a un’attività che mi ha fatto gioire immensamente, dove ogni libro è stato un’avventura piena di sorprese, di scoperte, di speranze e di entusiasmo, che sempre di più compensavano le difficoltà, i mal di testa, le costipazioni e le depressioni. E ho pensato a quanto meravigliosa è la vita che gli uomini e le donne hanno inventato, quando ancora indossavano i primi perizoma e si mangiavano gli uni con gli altri, per rompere le frontiere così ristrette della vita reale e trasferirsi in un’altra vita, più ricca, più intensa, più libera, attraverso il racconto.
Alle sei in punto della mattina, radio, televisione e Internet hanno confermato che la notizia era vera. Come aveva previsto Patricia, la casa è diventata un caos e da quel momento ho smesso di pensare e, quasi quasi, anche di respirare.
Mario Vargas Llosa