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 2010  ottobre 12 Martedì calendario

Morta la Sutherland la Stupenda all’opera - Come ogni suddito decorato dalla Regina, e lei era una convinta monarchica, girava per il mondo seguita dai suoi titoli

Morta la Sutherland la Stupenda all’opera - Come ogni suddito decorato dalla Regina, e lei era una convinta monarchica, girava per il mondo seguita dai suoi titoli. Era Dame Joan Sutherland, OM, AC, DBE: Order of Merit, «Companion» dell’Ordine dell’Australia, «Dame Commander» di quello dell’Impero britannico. Per noi del pubblico, per cui il suo mi bemolle sopracuto era una prova dell’esistenza di Dio, era «la Stupenda» o «the Incomparable». Quest’artista immensa è morta ieri nella sua casa di Montreux, in Svizzera, serenamente come aveva vissuto. Accanto a lei, il marito-direttore d’orchestra-pigmalione, Richard Bonynge, e l’unico figlio, Adam. Era nata a Sydney il 7 novembre 1926. Primi vocalizzi con la mamma, e qui siamo già alla leggenda, perché mother Sutherland aveva studiato con un’allieva della mitica Mathilde Marchesi, a sua volta pupilla di Manuel Garcia junior, figlio del primo Almaviva di Rossini e fratello della Malibran. Negli Anni Cinquanta, Joan si trasferì a Londra, convinta di essere una voce wagneriana. Qui incontrò Bonynge, che la sposò e la trasformò in un soprano drammatico d’agilità, termine che storicamente non è mai esistito e non vuole nemmeno dire niente, ma descrive bene quella generazione di grandi primedonne che seguì la Callas, inseguì il suo mito e inventò la «Belcanto-renaissance». La Sutherland diventò «la Stupenda» il 17 febbraio 1959 al Covent Garden di Londra, quando la sua prima Lucia di Lammermooor passò direttamente dalla cronaca alla storia. L’avrebbe cantata 233 volte. Davanti alla sua, il pubblico restava a bocca aperta. La Stupenda univa al virtuosismo trascendentale, mai superato (ascoltare per credere le sue hit barocche, «Tornami a vagheggiar» dell’Alcina di Händel o «Non han calma le mie pene» dal Montezuma di Graun) una voce timbrata, potente, estesissima. Il canto della Callas era la tragedia; il suo, l’astrazione, l’allegoria, la meraviglia. In repertorio, poco Mozart, un’unico Rossini (Semiramide), molto Bellini, molto Donizetti, parecchio Verdi, l’opera francese: stimava che Esclarmonde di Massenet fosse il suo capolavoro. In Italia cantò poco, ma i suoi Ugonotti nel ‘62 restano una delle leggende della Scala. Sono gli anni in cui Dame Joan diventa la colonna della Decca, la major che pubblica valanghe di dischi della squadra formidabile che comprende anche il marito, il mezzosoprano americano Marilyn Horne e un giovin tenore che Bonynge nel ‘65 scritturò per una tournée in Australia soprattutto perché era alto. Già: la Sutherland superava il metro e 80 e accanto a lei i tenori sembravano i nanetti di Biancaneve. Il ragazzo si chiamava Luciano Pavarotti, imparò a cantare ascoltandola e con lei in palcoscenico («e solo lì», chiosava Dame Joan) fece poi coppia fissa per vent’anni. Donnone imponente dalla mascella squadrata, era concreta, ironica, autoironica e «no nonsense». Dopo una vita passata a cantare i versi di Romani e Piave, continuava a non parlare l’italiano. L’ultima volta la si vide a Bologna nel 2007. Ritirava un premio, gli altoparlanti diffusero la sua leggendaria Fille du régiment: lei, sull’ultimo acuto, si alzò nel suo palchetto facendo il saluto militare. Oggi chiunque ami il canto la piange, come si piange una voce che è stata una colonna sonora della tua vita e che da ieri tace per sempre.