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 2010  ottobre 11 Lunedì calendario

CHI GUADAGNA DI PIU’? LE MAGRE E GLI UOMINI GRASSI

Spesso i media si interrogano su quella mania molto contemporanea delle donne di adeguarsi a un cliché di magrezza quasi anoressica, spesso conquistata a prezzo di fatiche al limite dell’ossessione: tutte vittime delle riviste di moda, prede delle proprie insicurezze psicologiche?
Mica tanto, se arriva fresca fresca una ricerca dell’università della Florida rilanciata dal Wall Street Journal, che ricolloca quello sforzo immane in una cornice teorica, quasi nobilitandolo con la spiegazione definitiva, cioè quella economica, che, come avrebbe detto il buon Marx, è motore della storia. Insomma, dice il professor Timothy A. Judge non sono solo le riviste patinate che vogliono così le signore, non è solo la moda imperativa e pervasiva che detta le regole: anche i datori di lavoro preferiscono — di più, gratificano — le donne magre e, in una specie di par condicio ribaltata che conferma lo stereotipo più tradizionale, gli uomini grassi. E il professore di Gainesville snocciola i dati per cui nel suo campione (tedesco-americano) le donne più smilze, che pesano 11 chili in meno della media, guadagnano 15 mila e 500 dollari all’anno in più delle altre, mentre al contrario gli uomini magri hanno stipendi più bassi di 8 mila e 500 dollari. Persiste dunque il cliché estetico-sociale più trito e consumato che sembra ripescato dal secolo scorso, tuttora talmente forte e pervasivo da determinare addirittura le contemporanee strategie aziendali. Sarà che le donne sono considerate perlopiù decorative ancor oggi che sono presenti in forze nel mondo del lavoro impegnate in acrobazie multitasking, sarà che latitando perlopiù il criterio meritocratico ci si rifugia su più comodi codici estetici.
Di sicuro a seguire pedissequamente questi canoni ci dovrebbero essere poche chance nelle aziende moderne per la cancelliera tedesca Angela Merkel, come per la nostrana Susanna Camusso, prossima responsabile Cgil, ma anche per la rotonda vincitrice del Campiello 2010, la scrittrice Michela Murgia. E, sullo stesso lato della scala delle preferenze aziendali, poca considerazione sarebbe riservata a un politico come Piero Fassino o a manager capaci ma simil anoressici come Franco Tatò o Vittorio Colao. Ma se agli uomini si è ancora disposti a fare sconti (e difatti come si è visto la differenza di salario è minore per i maschi sovrappeso), alle donne no: una doppia ferocia colpisce la donna che non onora la filosofia del corpo contemporaneo, della femmina che a qualsiasi età, dai 7 ai 90 anni, non si inchina alla chimera del corpo adolescente, fantasma primario per tutte, escluse ovviamente le donne dell’altra metà del mondo che hanno preoccupazioni davvero primarie.
Nel nostro mondo la donna non può permettersi di essere sbadata verso il mito della bellezza eterna, ma deve essere disposta a faticare con fitness, bisturi, macchinari, creme, ombretti e altro ancora per piegare una natura che con molte continua a essere matrigna. Il codice unico di bellezza a cui tutti, dalla politica allo spettacolo, si devono piegare, uniformare o perlomeno avvicinare, non permette deroghe e si è visto che, ahimè, continua a comandare anche in azienda. E tutto ciò — specialmente in tempi di crisi e di scarsità di contratti, a tempo determinato e indeterminato che siano — conta parecchio, e condiziona anche chi per sua natura non sarebbe così portato a coltivare l’estetica.
Consola, solo, in questo deserto di alternative al codice unico, la voce di una donna come Rosy Bindi che, per quanto bersagliata per la sua supposta bruttezza, da sempre si dichiara refrattaria all’omologazione. E da eterna ribalda ha poco fa dichiarato all’Infedele di non essersi mai sentita tale, anche quando sua mamma le suggeriva di aggiustarsi un po’, «basta poco» le diceva, ma lei non le dava retta, perché aveva altri vari e legittimi interessi da curare, la politica, lo studio. Per fortuna, si direbbe. Datori di lavoro permettendo.
Maria Luisa Agnese