Francesco Battistini, Corriere della Sera 11/10/2010, 11 ottobre 2010
FEDELTA’ ALLO STATO EBRAICO, SI’ ALLA LEGGE DELLA DISCORDIA —
«Giuro d’essere fedele allo Stato d’Israele in quanto Stato ebraico e democratico, e di rispettarne le leggi». Tre anni fa Yariv Levin, deputato Likud, presentò una nuova la legge sulla cittadinanza: non basta giurare fedeltà a Israele, diceva, bisogna giurarla anche alla sua «ebraicità». Poiché un israeliano su 5 è arabo, la proposta parve provocatoria: fu stoppata in commissione e il governo, chiamato a discuterne, per cinque volte accampò scuse. Finché la leggina non finì dimenticata. Tre mesi fa, d’improvviso, Bibi Netanyahu ha accolto la richiesta del suo alleato Lieberman, l’estrema destra determinante nell’eventuale voto sul congelamento delle colonie, e ha rispolverato il giuramento. Rivisto e corretto, ieri mattina è stato presentato al consiglio dei ministri ed è diventato legge, 22 a favore, 8 contrari: tutti i palestinesi che sposano arabi israeliani, tutti i non ebrei che sposano israeliani, tutti gli stranieri che vogliono restare qui, tutti quanti dovranno promettere fedeltà eterna allo Stato, ebraico prim’ancora che democratico.
Non giuri, non sei. Lo slogan è passato. E se il Parlamento lo ratificherà, migliaia di palestinesi dovranno adeguarsi. L’ultradestra religiosa dello Shas vorrebbe anche la possibilità di revocare la cittadinanza a chi sostenga organizzazioni terroristiche come Hamas, laddove il sostegno appare un concetto molto elastico: si cita perfino il caso della deputata araba che in maggio partecipò alla Freedom Flotilla, per rompere il blocco di Gaza. Su Netanyahu piovono critiche: dagli alleati laburisti, «qui si sconfina pericolosa mente nel fascismo » ; dal presidente della Knesset, Reuven Rivlin, «diamo armi ai nemici del sionismo»; da tre ministri del Likud che temono nuove tensioni con gli arabi («che c’importa se arabi o gentili dicono di sentirsi fedeli ai nostri valori?»). Le statistiche, ogni anno, dicono che metà dei nuovi cittadini israeliani sono palestinesi. E siccome il governo esclude dall ’ obbligo di giuramento gli ebrei della diaspora, che acquistano la cittadinanza con la «legge del ritorno», l’accusa di razzismo è dietro l’angolo: «Si crea uno status di cittadini di seconda classe», protesta Ahmed Tibi, deputato arabo. «E’ molto meno di quanto esigono in Olanda o Danimarca — ribatte Aviad Hacohen, opinionista di destra —: noi non chiediamo d’imparare l’ebraico o di studiare la nostra storia». Il premier difende la scelta: «Questo principio è l’essenza del sionismo. Nessuno ci faccia prediche sulla democrazia: non ci sono in Medio Oriente altre democrazie, né al mondo altri stati ebraici. Questa è la particolarità d’Israele: essere la casa nazionale del popolo ebraico. Chi vuole farne parte, deve riconoscerla».
Chi già ne fa parte, non sempre si riconosce. Un gruppo di scrittori, d’artisti, d’intellettuali ieri ha manifestato a Tel Aviv, davanti alla casa di Ben Gurion: «Non vogliamo essere cittadini d’uno Stato che forza le coscienze individuali — commenta Sefi Rachlevsky, scrittrice —, lo punisce se ha opinioni diverse da quelle della maggioranza, tradisce i principi che l’hanno fondato 62 anni fa». Bibi, si sa, ha pronte altre sorprese: per esempio, una legge che renda obbligatorio il referendum popolare, prima che sia firmata qualsiasi cessione di territori nel Golan o a Gerusalemme. «Uno scudo per le tempeste prossime venture», dicono gli sherpa del premier. «Un altro regalo a Lieberman » , scuotono la testa davanti alla casa di Ben Gurion.
Francesco Battistini