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 2010  ottobre 10 Domenica calendario

MONTALE, UN MITO QUOTIDIANO

Montale mi ha fatto soffrire molto, poi mi ha fatto vedere il sole. Ombre e luci: questo accompagna la memoria del mio incontro con lui. Quando lo conobbi era già un mito. L’ ho avvicinato per brevi momenti negli ultimi anni della sua vita. E nel fissare i ricordi sulla pagina, devo ammettere che di poesia so poco, ci sento male e con Montale non ho certo tentato di parlare né di ascoltarlo. Ho guardato solo un poco l’ uomo. Mi era parso subito di sentirlo borbottare da ligure che guarda anche al mare, ma ne vede soprattutto le luci che giungono a terra, fanno vivere qualche guizzo di immagine precisa, poi vanno via. Borbottava anche alla vita ironico, «Esterina i vent’ anni ti minacciano», senza compromettersi. Come un pittore - i pittori non trattano le parole, parlano a gesti, non dicono più di quello che fanno vedere - Montale evoca una musica leggera che canta, l’ immagine lo accompagna. Non è un cuore d’ oro, è musico che ama il capriccio, sembra lontano da Sbarbaro, suo amico di gioventù. Vidi Montale al «Corriere». Il «Corriere» era allora «milanese», proprietà di gente di vecchia data che rispettava e praticava in silenzio l’ onestà quotidiana. In quel tempo era direttore Mario Missiroli, scettico, voltairiano (maestro ideale Anatole France). Aveva duellato con Mussolini e consigliato De Gasperi. Erano i giorni nei quali la cultura c’ era e gli intellettuali non sapevano di sapere. Ricordo Missiroli che parlava al telefono con un collega e gli suggeriva di leggere Wilamowitz, il grande filologo che, tra Otto e Novecento, illuminò con la sua immensa opera tutto il mondo greco, da Omero agli Alessandrini. Wi-la-mo-witz compitava all’ amico ignaro. Io stupivo e annotavo, senza riuscire ad intendere a quale delle sue mille opere si riferisse. Andavo spesso al «Corriere», passavo di stanza in stanza: lavoravano, scrivevano e nessuno mi guardava storto. Ne ricordo tanti, ma i nomi di molti oggi mi sono sfuggiti. C’ era Afeltra, giovane vivace, di quell’ inquietudine che è scoppiata nella scrittura lucida delle sue tarde memorie. C’ era Buzzati che mi pare sia stato, nel nostro tempo, l’ unico scrittore ad aver sentito in propria naturale verità il mestiere del giornale; non intendo solo nello scrivere il pezzo, ma nel «fare il giornale», nel «montare la pagina». Sentiva nei fatti vivi del giorno qualcosa di magico che è nell’ accadere della vita; e Buzzati ce lo dà anche nella sua narrativa. Distribuivo libri e chiedevo recensioni, mi capitò anche di intervenire sulla messa in pagina di un articolo per Gadda. «Avete fatto solo due colonne, credo che ne meriti almeno una terza!», dissi a Buzzati. E lui: «Hai ragione». Montale, allora, era in stanza con un giornalista che mi pare fosse di Parma. Sedevano uno in fronte all’ altro. Nonostante fosse già molto noto, correggeva testi come un redattore, poi scriveva anche pezzi di critica musicale. Dialogava da giornalista spiccio, sapeva essere molto pratico nei rapporti di lavoro. Un giorno lo vidi alzarsi e prendere una valigetta, commesso viaggiatore che doveva partire per Ascona, in Svizzera, a intervistare un cliente della Biki, sarta milanese, che, per legami di famiglia, era vicina ai propietari del «Corriere». Il cliente, tedesco, aveva vinto il Premio Amsterdam di poesia latina. Un premio reso famoso in Italia da Pascoli, ma anche un mio modesto professore ne ostentava in classe la pergamena di premiato. Al poeta Montale l’ arduo compito! Infastidito, lo svolse. Seguivo Montale in lunghe passeggiate dopo l’ orario del «Corriere». Una sera si andava per via Manzoni, davanti a noi camminava la Mosca; era piccola, poche ossa, e io la vedevo scura. Aveva un passo breve, incerto e si volgeva spesso, quasi ronzasse gentile con poche parole che restavano nell’ aria. Improvvisamente si voltò e nella penombra dei suoi occhi cominciò a distinguermi. Perentoria mi invitò a cena; si era quasi all’ angolo di via Bigli dove abitava. Montale rimase in silenzio e io tacqui. Poi, dopo due o tre passi, giusto il tempo per una fulminante meditazione, tornò al marito e con la voce forte dei sordi: «Ma chi è quello?». Impossibile non ricordare i versi di «Xenia» a lei rivolti: «Senza occhiali né antenne / povero insetto che ali/ avevi solo nella fantasia,/ una bibbia sfasciata ed anche poco/ attendibile, il nero della notte, /un lampo, un tuono e poi/ neppure la tempesta. Forse che/ te n’ eri andata così presto senza/ parlare? Ma è ridicolo/ pensare che tu avessi ancora labbra». Mi pare che dopo tanti raggi di luce, cose viste, immagini pure secche come quelle del pittore Oscar Saccorotti, che cantano e rappresentano senza dirti la verità dell’ artista nel suo mugugno, dopo tanti commenti della sua poesia ascoltati nella mia gioventù, tra le sprezzature di Gozzano e il sonoro di d’ Annunzio, e le chiare risonanze liguri, mi pare che qui ora Montale abbia tirato fuori qualcosa di se stesso in una oggettività classica. Chiaro come un greco, con qualche movenza alessandrina. La Mosca smise di sbattere le sue ali leggere, io giovane correvo senza ascoltare il silenzio e non pensai di scrivere a Montale un biglietto. Il grande poeta con quella piccola donna che parlava nel vuoto! Ma meno di un mese dopo, senza quasi chiedere permesso, andai incosciente a trovare Montale. Era tutto in nero nella penombra, sdraiato su un lettino stretto; alzò appena la testa dal cuscino, mi rispose borbottando come in un confessionale.
Livio Garzanti