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 2010  ottobre 10 Domenica calendario

COLPIRE DURO E TRATTARE. LA STRATEGIA PER ANDARE VIA - I

professori della Squadra Rossa convivono in una base laboratorio a Kabul. «Ribelli della conoscenza» è la carica autoassegnata, i gradi sono quelli della gerarchia militare. Il tenente colonnello Brian Hammerness deve spronare i suoi uomini a pensare fuori da quella scatola sempre più angusta che sta diventando la guerra afghana. C’ è bisogno di idee nuove e i cinque del pensatoio le vanno a dissotterrare dal passato recente del Paese. Il loro primo rapporto studia come i talebani abbiano conquistato il potere all’ inizio degli anni Novanta, come un gruppo di studenti pii e barbuti sia riuscito a estendere l’ influenza dalle province del Sud, a maggioranza pashtun, fino alla presa di Kabul nel 1996. «I fondamentalisti hanno sfruttato la rabbia contro gli eccessi dei signori della guerra e hanno rimpiazzato il governo, fornendo i servizi e costruendo una rete di contatti locali», spiega il capitano Jeffrey Mars. Conclusione: così devono muoversi anche gli americani e gli alleati. La dottrina di contro-insorgenza del generale David Petraeus e del predecessore Stanley McChrystal segue questa strategia. Che si dispiega lenta e richiede tempo, come avverte il sergente Steven Dietz, riservista dell’ esercito e docente all’ università del Texas: «E’ elementare. Non è possibile passare in una notte da un sistema feudale a una democrazia partecipativa, senza le tappe intermedie: industrializzazione, crescita della classe media... Non succederà solo perché noi vogliamo che succeda». Gli intellettuali-soldati chiedono pazienza a una Casa Bianca che è ormai inquieta quanto le quarantasette nazioni della coalizione, stringe i tempi e gli incontri. Fra una settimana a Roma, si riuniscono gli inviati speciali per la regione, ci saranno anche Petraeus e Zalmai Rassoul, il ministro degli Esteri afghano. A novembre, la Nato si ritrova a Lisbona (e si discuterà di truppe, il generale americano potrebbe chiedere un altro sforzo). A dicembre, il presidente Barack Obama dovrà valutare i progressi (o gli arretramenti) da quando ha concesso ai suoi comandanti trentamila soldati in più. «I militari stanno già esercitando pressioni per ottenere altri dodici-diciotto mesi rispetto a quel luglio 2011, fissato per l’ inizio del ritiro», scrive l’ analista pachistano Ahmed Rashid sul Financial Times. «Potrebbe essere troppo da mandar giù per il Congresso americano e per la maggior parte dei Paesi impegnati nel conflitto». Thomas E. Donilon, il neo-nominato consigliere per la sicurezza nazionale, è un civile che prende il posto di un generale, James L. Jones. Ed è un civile che ha sempre contrastato le richieste dei generali, come racconta Obama’ s War, il nuovo libro di Bob Woodward. Donilon era contrario al «surge» di truppe e ha avvertito il presidente di non infilarsi in una «guerra senza fine». Il piano Petraeus si formula in quattro parole: ripulire, tenere, costruire, trasferire. L’ ultima è la più importante - fa notare Rashid - perché presuppone che il controllo, la sicurezza e l’ amministrazione vengano lasciati città dopo città agli afghani. Sul calendario di questa transizione, si stanno già fronteggiando i diplomatici occidentali. Gli americani preferirebbero il pacchetto unico: se e quando il governo di Kabul sarà pronto (il presidente Hamid Karzai promette nel 2014), il controllo viene trasferito in blocco. Gli europei vorrebbero un passaggio graduale. L’ obiettivo è evidente: l’ area sotto il mio comando è stabilizzata, i miei soldati possono tornare a casa. Dei tempi della transizione ha parlato Ignazio La Russa, il ministro della Difesa, con Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato, una ventina di giorni fa a Roma. La mappa delle aree sicure è però instabile. La pressione a sud, nella zona di Kandahar, ha spinto i talebani verso nord (sotto controllo dei tedeschi) e ovest (dove c’ è il comando italiano). L’ offensiva nella roccaforte dei fondamentalisti (qui è nato il movimento, il mullah Omar predicava in una moschea di fango a una ventina di chilometri dalla città) non sembra dare i risultati promessi dagli strateghi. Hamid Karzai la lasciato ieri il palazzo di Kabul per volare nella valle dell’ Arghandab, il serpente verde dove si stanno affrontando gli integralisti e i soldati della 101ª Divisione. La testa del rettile - per gli americani - è Kandahar. Dalla supremazia nei suoi quartieri - ripetono - passa il destino della guerra. Il presidente ha parlato a duecento boss tribali, la prima visita (e il primo segno di supporto ufficiale) da quando è stata avviata l’ operazione Dragon Strike. Li ha esortati «a proteggere i villaggi, a bloccare le infiltrazioni»: «Dopo questi interventi della Nato sarà vostro dovere garantire la sicurezza». E’ in questa regione che le forze speciali americane stanno organizzando le milizie locali (volute da Petraeus e mal tollerate da Karzai), un tentativo di rafforzare il traballante esercito nazionale. Anche il leader afghano si prepara al dopo ritiro e ha intensificato i contatti con i capi talebani per cercare una via d’ uscita politica al conflitto. L’ Alto consiglio per la pace (sessanta uomini, otto donne più due ancora da indicare) è stato appena nominato e incarna il mandato presidenziale di riconciliare il Paese. «A meno che non voglia restare altri cinque-dieci anni in Afghanistan, l’ Occidente deve accettare e promuovere i negoziati con i fondamentalisti - continua Rashid -. In dicembre, Obama non ascolti i consiglieri militari e basi le decisioni sui fatti e sulla realtà di quello che sta succedendo, non su speranze e obiettivi irraggiungibili». La via delle trattative passa dai sauditi (gli unici ad aver l’ influenza economica e religiosa necessaria a convincere i talebani), quella per la stabilità futura dal Pakistan, dall’ India, dalla Cina, dall’ Iran. «Dobbiamo ridurre la presenza militare - scrive in un rapporto controverso l’ Afghanistan Study Group - perché radicalizza l’ etnia pasthun e favorisce il reclutamento da parte dei fondamentalisti. Gli sforzi diplomatici devono coinvolgere gli Stati vicini, anche avversari tra loro, e convincerli a lavorare per evitare il caos». Il dossier prova a sfatare gli undici «miti» sul conflitto. Al numero 1: «Gli Stati Uniti possono permettersi di rimanere tutto il tempo necessario a vincere». La risposta: «La nostra sicurezza nazionale dipende dalla nostra forza economica. L’ impegno a Kabul distrae le risorse finanziarie e quelle dei nostri leader». Al numero 2: «L’ amministrazione Obama ha una strategia chiara e una via d’ uscita dalla guerra». La risposta: «La strategia non funziona. La Casa Bianca sta cercando di realizzare le circostanze minime che permettano un ritiro». Al numero 6: «Se ce ne andiamo, Al Qaeda sarà in grado di rafforzarsi e attaccare di nuovo gli Stati Uniti». Una delle ragioni più forti proclamate da George Bush prima e da Obama adesso. La risposta: «I soldi risparmiati con il ritiro vanno investiti nella sicurezza interna e nelle missioni delle forze speciali per impedire un attentato degli estremisti». La guerra che non finisce sta già costando agli americani 100 miliardi di dollari l’ anno.
Davide Frattini