Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  ottobre 10 Domenica calendario

IL DOLORE E LA RAGIONE

Il generale David Petraeus, comandante della forze alleate in Afghanistan, è un uomo intelligente, misurato, razionale e ha probabilmente la migliore delle strategie possibili. Vuole riprendere la maggior parte dei territori perduti, conquistare, anche col denaro, la fiducia delle tribù, creare istituzioni civili al centro e nelle zone liberate, addestrare le forze dell’ esercito afghano, incoraggiare il governo di Kabul a cercare una intesa politica con la componente meno bellicosa del campo talebano e rispettare un calendario, deciso alla Casa Bianca, che prevede l’ inizio del ritiro delle truppe americane verso la metà dell’ anno prossimo. Ma questo piano, sulla peggiore scacchiera politico-militare del grande Medio Oriente, si scontra quasi ovunque con difficoltà pressoché insormontabili. I talebani fuggono davanti a una potenza di fuoco contro la quale è inutile combattere, ma ritornano sul campo non appena gli americani e i loro alleati concentrano le loro forze su un altro fronte. I convogli dei rifornimenti petroliferi che attraversano le valli e i monti del Waziristan vengono attaccati e distrutti senza che le forze armate del Pakistan possano o vogliano proteggerli dai commando talebani. Gli aerei americani senza pilota danno la caccia alle formazioni della guerriglia, ma ogni operazione uccide, insieme ai nemici, gruppi di civili inermi e regala così al nemico la rabbia dei villaggi colpiti. Il denaro profuso nei lavori di ricostruzione finisce in buona parte nelle mani dei talebani. L’ esercito afghano comprende circa 150.000 uomini; ma il loro addestramento è insufficiente e i loro ufficiali, come ricorda il giornalista pachistano Ahmed Rashid, appartengono a gruppi etnici che i pashtun considerano alieni e ostili. Petraeus non sta combattendo soltanto contro i talebani. Combatte contro il nazionalismo pashtun, l’ ambiguità del Pakistan, la corruzione della cerchia di Karzai, i coltivatori di papaveri, i mercanti d’ oppio e la paura di popolazioni che rischiano di pagare con la vita qualsiasi forma di collaborazione con l’ occupante. Questo quadro è perfettamente noto ai governi della Nato. A Londra, a Parigi, a Roma tutti sanno che la vittoria è improbabile. Gli uomini e le donne del contingente italiano (circa 4.000 alla fine dell’ anno) combattono quando occorre, ma sono impegnati soprattutto nel tentativo di ricostruzione civile e hanno ottenuto buoni risultati, se necessario con qualche elargizione in denaro, che furono criticati a suo tempo persino da chi oggi sta facendo la stessa cosa. L’ argomento non piacerà ai pacifisti, ma il contingente italiano avrà conquistato quando tornerà a casa - soprattutto con il sacrificio di coloro che sono morti per l’ Afghanistan - un bene per noi particolarmente prezioso: il rispetto degli alleati. Dovremmo forse, in questa situazione, anticipare il rientro? Se fossimo in Afghanistan per vincere la guerra, sì. Ma noi, come tutti gli europei, ci siamo oggi per obbligo di lealtà verso un alleato, Barack Obama, che fa del suo meglio per uscire da una situazione di cui non è personalmente responsabile. La Nato andrebbe interamente ripensata e riscritta, ma è oggi in Afghanistan il simbolo e il test della solidarietà atlantica. Le Alleanze non possono essere rispettate soltanto quando splende il sole. Vengono messe alla prova soprattutto quando il cielo si riempie di nuvole.
Sergio Romano