Vincenzo Savignano, Avvenire 10/10/2010, 10 ottobre 2010
«NOI NEL VENTRE DELLA RUHR PER 17 MARCHI»
C’ è una vena sotterranea, scavata dal dolore e dal sacrificio, che collega idealmente il deserto di Atacama nel nord del Cile e la cittadina di Oberhausen nel cuore della Ruhr. Entrambe sono terre di miniere e minatori, di uomini coraggiosi che si calano e calavano nelle viscere della terra per pochi soldi. «Per 17 marchi al giorno», sottolinea Gianni Manca, presidente della federazione circoli sardi di tutta la Germania. Lui in miniera non c’è mai stato, ma di minatori ne ha conosciuti tanti: «Persone segnate nel corpo e nell’animo da anni trascorsi a 1000 metri sottoterra a respirare polvere nera». Manca alcuni anni fa ha avuto il merito di ideare un gemellaggio tra le città di Carbonia e Oberhausen. Dalla fine degli anni 50 in centinaia giunsero dal principale centro minerario sardo ma anche da Iglesias, Ingurtosu, Segariu, Ierzu e Orani per calarsi nel ventre nero della Ruhr. Oggi ad Oberhausen ne sono rimasti pochi di ex minatori, si ritrovano tutti i venerdì al circolo Rinascita. «In totale saranno circa una ventina, ma ogni anno qualcuno purtroppo ci lascia – prosegue Manca – la maggior parte se li è portati via la silicosi, la malattia dei minatori».
«Di quella roba ne respiravamo tanta », ricorda Dioniso Virdis, 68 anni, arrivato ad Oberhausen il 18 ottobre del 1961. «Quando tornavamo su ci davano un litro di latte a testa, per buttarla fuori, ma non credo che servisse a molto». Dioniso ha lavorato nella miniera di Osterfeld per tre anni: «Dopo essere uscito due volte in barella e dopo 21 punti sulla schiena e dieci su tutte e due le ginocchia ho detto basta. Una volta mi sono salvato per miracolo: crollò un tunnel di un centinaio di metri, strisciai per tre ore tra le pietre e il carbone, quando mi tirarono fuori non potevano credere che fossi ancora vivo». All’epoca, nonostante la Germania fosse il Paese europeo più avanzato dal punto di vista della sicurezza, le condizioni lavorative erano tremende. «Si lavorava seminudi, in mutande, guanti, elmetto e piccone. Nient’altro», ricorda Pietro Piria, 79 anni, in Germania dal 1960. Dopo aver presentato domanda all’ufficio di collocamento di Domus Novas, venne chiamato a Verona, «dove alcuni medici delle imprese tedesche della Ruhr ci visitarono. Prendevano i più sani, io ero con altri tre che rispedirono tutti a casa». Appena arrivato ad Oberhausen dopo un giorno lo calarono nella miniera Concordia: «In quel posto ci ho passato dieci anni, il periodo più brutto è stato quando ho lavorato nei gruppi di avanzamento. Prendevano i più piccoli come me perché bisognava piegarsi in dei cunicoli alti 80 centimetri e restare lì ogni giorno a scavare per otto ore, sperando che la montagna non ti cadesse sulla testa ». Qualcuno arrivò qui che era ancora minorenne. «Fecero firmare una liberatoria a mio padre – ricorda Angelo Peis, 69 anni – mentre firmava scoppiò a piangere. Sapeva bene a quello a cui andavo incontro ». Gli ex minatori del circolo Rinascita stanno seguendo la vicenda dei loro colleghi cileni: «Anche noi possiamo definirci degli eroi - esclama con orgoglio Michelino Croba, 68 anni - grazie a tutti i minatori sardi, pugliesi, ma anche turchi, greci e spagnoli, la Germania è diventato il Paese più ricco d’Europa».