Elisabetta Rasy, Il Sole 24 Ore 10/10/2010, 10 ottobre 2010
ERAN TRECENTO, GIOVANI E FORTI
«L’Ortis che mi capitò allora fra le mani, mi infanatichì: lo imparai a memoria. La cosa andò tanto oltre che la mia povera madre temeva di un suicidio». A "infanatichirsi", a causa del romanzo epistolare che Ugo Foscolo aveva scritto alla fine del Settecento e che vide la luce, in varie edizioni, all’inizio del nuovo secolo, è un giovanissimo Giuseppe Mazzini che sta scoprendo la lotta per la libertà della patria italiana. Quel verbo è rivelatore. Anche Jacopo, il protagonista del libro, è un fanatico: in lui tutto è eccessivo, l’amore per Teresa – che va sposa a un altro – come l’amore per la patria – la parte per il tutto, cioè Venezia che Napoleone con il trattato di Campoformio ha ceduto all’Austria. Non c’ è sentimento che non sia portato all’estremo, nella psicologia, nel corpo sempre soggetto a lagrime e squilibri fino al suicidio finale, e soprattutto nella lingua, in una costellazione in cui l’ardore si incastra fatalmente tra l’odio, il tradimento, la delusione, il sacrificio e le tante domande retoriche che scuotono il lettore come una strada piena di buche. Colpa e martirio, strazio e enfasi. Il Risorgimento non è ancora cominciato, ma Mazzini ha visto giusto: proprio quello sconsiderato giovanotto, quello strano eroe così pessimista e dolorante e facondo è un perfetto viatico per i tempi che verranno. Con i suoi tormenti e i suoi lamenti prefigura un riscatto patriottico che non avrà i caratteri di un epos ma sarà piuttosto un pathos, una vera passio.
La nascita della nazione italiana, infatti, se ardua dal punto di vista politico, fin da subito, dal sorgere della questione, si presenta assai problematica anche dal punto di vista simbolico. Bisogna cambiare le carte in tavola: tutte le straordinarie virtù culturali del popolo italico lungo la sua storia – l’infuocato talento artistico e la mirabile intelligenza – al momento non servono: ci vuole senso civico, lealtà reciproca, attaccamento al suolo e al sangue, cioè qualità non facili da reperire in un bel paese diviso e fin lì più o meno amabilmente soggetto allo straniero. Insomma, per costruire il presente e il futuro bisogna ricostruire il passato, e i letterati sono in prima linea, senza esclusione di colpi – ghost story, danza di illustri spettri – e neanche di colpi bassi, come appaiono, a guardarli oggi, certi classici dell’epoca, per esempio Ettore Fieramosca, ossia la disfida di Barletta di Massimo d’Azeglio o L’assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi – romanzo cui gli italiani sono se non altro debitori di una frase spesa in mille occasioni, quel «Tu ammazzi un uomo morto» detto dall’eroe e martire Ferruccio nella Firenze del 1530 al vile Maramaldo.
Per questo è difficile applicare alla letteratura del periodo quel gusto del recupero e della riscoperta che agisce per le arti figurative. La bella e eloquente figurazione ottocentesca, con il suo realismo suggestivo anche quando in costume, dopo le abiure del Novecento è seducente oltre che interessante. Invece le opere, in poesia e in prosa, che più contribuirono a creare un diffuso patriottismo non dovevano né potevano lavorare sulla realtà: quello che davvero serviva era un immaginario, un immaginario nuovo o quantomeno rimesso a nuovo per sostenere con una patria ideale la patria reale che l’ingegneria politica avrebbe costruito a suo modo. In altri termini, serviva una letteratura impegnata popolare e militante, che tenesse presente "le storie" – lo dice Foscolo in un famoso discorso del 1809 – e soprattutto non parlasse – lo dice un poeta di successo come Giovanni Berchet nel 1816 – né per le élite né per il volgo (che era molto affollato: tra il 1848 e il 1861 il tasso d’analfabetismo nella popolazione era del sessantacinque per cento) ma per l’italiano medio a venire. I romanzi più belli, e più duraturi, I promessi sposi di Manzoni o Confessioni di un italiano di Nievo, seguono il proprio estro piuttosto che la stretta ideologia patriottica. Intanto però gli ortodossi letterati risorgimentali, anche i più ingenui, allestiscono un repertorio che, se si presterà più tardi alle parodie involontarie del fascismo e a quelle volontarie del post-fascismo, è ora importante quanto il lavoro dei politici per l’ invenzione di una mitologia della nuova Italia passionale e funzionale.
Anche se ai posteri comuni tutto questo lavoro riserva più che altro pie memorie, come quelle che nella scuola elementare e media ancora negli anni cinquanta e inizio sessanta del secolo scorso gli scolari apprendevano come filastrocche fiabesche, «Eran trecento, eran giovani e forti...» oppure «Il morbo infuria, il pan ci manca, sul ponte sventola bandiera bianca...», o anche «Si scopron le tombe, si levano i morti...». Rime sentimentali di firme dimenticate come Luigi Mercantini o Arnaldo Fusinato, non dissimili del resto da quelle del nostro attuale inno – anche Mameli, come questi autori, era un poeta patriota, anche lui scriveva versi facili per colpire il cuore e l’immaginazione lasciando ai filosofi e agli studiosi la non facile riflessione sul significato della storia in corso e sul suo futuro, e riservando ai memorialisti (tantissimi, da Settembrini alla Belgioioso, da Pellico a Saffi, da Costa e Minghetti a Giuseppe Cesare Abba), oltre al merito della testimonianza, anche quello di tener viva la bellezza della lingua italiana colta e insieme quotidiana nella sua ricchezza e varietà.