Luigi Mascilli Migliorini, Il Sole 24 Ore 10/10/2010, 10 ottobre 2010
L’ANNO TRANQUILLO DELL’UNITÀ
Sebbene esso sia l’anno ufficiale della nascita dell’Italia unita, nessuno, neppure tra i più volenterosi e patriottici contemporanei, oserebbe sostenere che si tratti di un annus mirabilis, un anno di portenti.
Nulla a che vedere, insomma, con i suoi immediati predecessori, il 1859 aperto dal «grido di dolore» e proseguito nelle glorie di Solferino e di San Martino, e poi il 1860 di Garibaldi, del rimpianto salotto di Nonna Speranza e della nostalgica epopea di Salvator Gotta. Ai primi giorni del 1861 appartiene una notizia inquietante che viene da lontano. Sembra – così racconta un giornale di New York – che il presidente americano Lincoln abbia proposto a Garibaldi di assumere il comando delle armate nordiste nella guerra civile che si è aperta in America. Qualche smentita di circostanza e il finale insuccesso della trattativa rimasta fino allora segreta non cancella il fatto che la lettera di Lincoln sia stata davvero scritta e che sia impensabile che l’eroe dei due mondi rimanga a lungo a imbiancare la sua casa di Caprera.
Brutto segno di un paese che ancor prima di unirsi formalmente già perde i pezzi del suo immaginario simbolico e del suo protagonismo politico. Scontenti di Teano e di un condottiero costretto a fare il Cincinnato i democratici italiani meditano rivincite e preparano nuovi sogni: Roma, innanzitutto, e poi Venezia e Trieste dove, in quei giorni, i deputati della Dieta provinciale hanno scritto nessuno sulle schede per i rappresentanti da inviare al Parlamento di Vienna. Da Gaeta, ai primi di febbraio, sembra venire una buona notizia. Capitola l’ultimo baluardo della resistenza borbonica (il penultimo, a essere più esatti, dal momento che per un mese ancora si combatte davanti alla estrema fortezza settentrionale dell’antico Regno napoletano, Civitella del Tronto). Sul Mouette, bastimento messo a disposizione da Napoleone III sempre più sensibile alla causa delle vecchie dinastie preunitarie, si imbarcano il triste Franceschiello e la combattiva Sofia di Baviera, leggendaria eroina dei giorni dell’assedio. Partono lasciando, però, uno strascico di rivalse e di rimpianti che già nell’agosto di quell’anno esplodono nei primi episodi di brigantaggio e nelle prime violente repressioni – a Casalduni, a Pontelandolfo – da parte dell’esercito di Sua Maestà Vittorio Emanuele.
Gli annali di questo anno, d’altronde, alla compassata seduta del Parlamento nazionale in cui si proclama, il 17 marzo, l’inizio del Regno d’Italia, preferiscono di gran lunga la burrascosa giornata del 18 aprile. Quel giorno, infatti, Garibaldi fa il suo primo ingresso alla Camera vestito della immancabile camicia rossa sulla quale ha gettato – con gesto di ostentato distacco dalle sintassi ufficiali della nuova in Italia in redingote – un vecchio poncio sudamericano. Il profeta, insomma, (un attore, dice qualcuno più maliziosamente) di un’altra Italia già messa ai margini della storia della nazione come egli rinfaccia apertamente a Cavour nel tumulto dell’aula e tra le proteste violente del suo avversario di sempre.
Mentre in Parlamento si litiga nasce il Gran Libro del Debito Pubblico, parola sontuosa e minacciosa dietro il quale si nasconde un deficit di 2.450 milioni per l’anno 1861. La pressione fiscale è al 17%: non molto, anzi pochissimo se si guarda con gli occhi dell’anno di grazia 2010. Ma siamo, appunto, nel 1861 e qualcuno, sulla stampa, osserva che si tratta della tassazione più pesante in Europa. Serve – si replica – per colmare il divario che separa l’Italia appena nata dalle nazioni più progredite del continente, quelle che l’industrializzazione l’hanno avviata già da parecchio tempo e corrono tanto più veloci di noi.
Bisogna, insomma, "infrastrutturare" il paese, costruire strade e ferrovie che mancano un po’ dappertutto. Si inaugura, ai primi di novembre, la Bologna-Ancona. È la prima linea ferroviaria che prova ad affacciarsi sull’Adriatico, avviando quel progetto di un grande asse portante da Milano a Napoli al quale devono via via aggraffarsi le direttrici rivolte ai porti dei due grandi mari, che rimarrà sempre – anche cento anni dopo, al completamento dell’Autostrada del Sole – la bella incompiuta di una penisola assai più accidentata di quanto avessero, forse, immaginato i fiduciosi ingegneri del nuovo Regno.
Intanto Torino e Milano provano ad ampliare e rinnovare, con appositi disegni urbanistici, la viabilità cittadina. Non sono ancora «le vie corrusche di rotaie» che canterà, perplesso, Guido Gozzano negli anni della prima industrializzazione, ma è il timido affacciarsi di una giovane nazione e delle sue vecchie/nuove capitali alla struggle for life del capitalismo di secondo Ottocento.
Muore il 6 giugno, quasi dividendo a metà il tormentato 1861, Camillo Cavour e invece di andare avanti sembra che il passato voglia prendersi una singolare rivincita. Al governo è chiamato Bettino Ricasoli, il «barone di ferro», un uomo del Medioevo scrivono i giornali di parte avversa, pensando alla rigidità del carattere e al profilo di antica nobiltà cavalleresca. Il suo castello a Brolio, nel cuore del Chianti più antico, è fortezza austera che pare riportare indietro di secoli l’immagine di un’Italia lanciata verso la modernità politica ed economica. È qualcosa di più della prosa che si sostituisce alla poesia, come dirà Croce pensando alla fine, allora, dei sogni risorgimentali. È il passato che non passa, l’Italia della tradizione che resiste e si impone sulle speranze più generose.
Lo aveva capito Ippolito Nievo, ma la sua vita finisce il 4 marzo 1861 nel naufragio della nave che lo porta a Napoli e le sue Confessioni di un Italiano restano, così, il diario aperto di una generazione senza approdo. È la forza del destino, medita Giuseppe Verdi, guardando al collettivo cammino percorso in quest’anno e battendo già il tempo dell’opera che inaugurerà La Scala nel 1862 (nota di gda: nel 1862 La Forza del destino debutterà a Pietroburgo, arriverà alla Scala solo nel 1869)