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 2010  ottobre 11 Lunedì calendario

VALUTE, SCONTRO APERTO PECHINO RIFIUTA L´ABBRACCIO DI OBAMA - NEW YORK

L´inutile vertice del Fondo monetario a Washington, la paralisi di ogni forma di cooperazione internazionale per uscire dalla crisi, rafforza quelli come Spike Maynard. E´ il candidato repubblicano del West Virginia, il cui spot elettorale mostra il fondatore del comunismo cinese Mao Zedong, e denuncia la delocalizzazione di posti di lavoro americani oltreoceano in un settore strategico per il futuro dell´energia pulita: la produzione di turbine eoliche. Un dragone gigante appare invece nei manifesti di Zack Space, deputato democratico dell´Ohio: lui accusa l´avversario repubblicano di sostenere il liberoscambio che fa vincere la Cina. Nello scontro elettorale della California tra la democratica Barbara Boxer e la repubblicana Carly Fiorina, ciascuna rinfaccia all´avversaria un programma economico che favorirebbe la concorrenza cinese. Il New York Times ha censito almeno 29 battaglie per le elezioni legislative del 2 novembre, dove i candidati si accusano reciprocamente di aiutare l´ascesa economica di Pechino. In un´America logorata dalla crisi economica, polarizzata nelle sue divisioni politiche, solo sul pericolo cinese sembrano tutti d´accordo. Non su come contrastarlo, però.
Dal vertice del Fmi esce indebolita la strategia originaria di Barack Obama: puntava sull´idea che la Cina è ormai abbastanza forte, ricca e matura da poter essere coinvolta come "azionista di riferimento" nel governo dell´economia globale. E´ una pura coincidenza che l´assemblea di Washington si sia aperta mentre Pechino reagiva rabbiosamente al Nobel della pace. Ma la brutalità usata contro Liu Xiaobo e le minacce alla Norvegia sono segnali della distanza che ancora separa la logica della Repubblica Popolare da quella dell´Occidente. Due anni fa, quando la recessione stremava l´Occidente e la Cina stessa temette di vedere la fine del suo boom, ci fu un breve periodo di vero dialogo: nei summit del G20, del G8 e del Fmi si respirava un senso di urgenza, la consapevolezza di un destino comune. «Quella cooperazione - ha osservato il banchiere George Soros - era spinta unicamente dalla paura. Ora i mercati finanziari hanno rialzato la testa, la paura non c´è più, le divergenze tra nazioni sono peggio che mai». Le potenze che hanno accumulato un forte avanzo nei conti con l´estero, dalla Cina fino alla Germania, non ritengono di avere un "dovere" di spenderlo per trainare la crescita degli altri. I dirigenti cinesi non vedono la necessità immediata di rivalutare la loro moneta per aumentare il potere d´acquisto dei propri consumatori e le importazioni di prodotti occidentali. Il dirigente della banca centrale di Pechino Li Daokui ha respinto le richieste degli Stati Uniti e dell´Europa: «Il renminbi si è già apprezzato, movimenti del cambio più rapidi non aiutano nessuno». Sul lungo termine i dirigenti cinesi sono più possibilisti. Si rendono conto che per una crescita equilibrata, e socialmente stabile, la Repubblica Popolare avrà interesse a consumare di più (e a costruire un Welfare State che riduca la necessità di risparmio precauzionale delle famiglie). Ma per noi occidentali il lungo termine è troppo lontano. In America si vota tra 22 giorni, in uno scrutinio dominato dall´economia: con 14,8 milioni di disoccupati, e la mini-ripresa che sembra già finita. La delusione per la mancanza di risultati al vertice del Fmi delegittima l´approccio multilateralista di Obama. Perfino il direttore generale del Fondo, Dominique Strauss-Kahn, ha fatto un bilancio impietoso: «Non c´è modo di riequilibrare la crescita mondiale senza qualche cambiamento nella parità fra le monete. Ma il linguaggio adottato qui a Washington è inefficace. Le cose non cambieranno». La diplomazia tenta di metterci una toppa spostando la ricerca di una soluzione al prossimo appuntamento: il G20 di Seoul dove Obama incontrerà il presidente cinese Hu Jintao. Ma a Seoul l´11 novembre Obama arriverà con una Camera dei deputati probabilmente a maggioranza repubblicana, e ancora più aggressiva nel minacciare ritorsioni protezioniste contro la Cina.
Visto che la cooperazione internazionale è inesistente, dal week-end di Washington è uscita una sola conclusione possibile: la guerra delle moneta continuerà. Ciascuno per sé, alla ricerca di svlutazioni competitive per rilanciare le proprie esportazioni e spostare il peso della crisi sui vicini. Le prossime munizioni in quella guerra le sparerà la Federal Reserve. Sembra ormai imminente una nuova tornata di acquisti di Buoni del Tesoro americani da parte della banca centrale, acquisti finanziati stampando carta moneta. E´ questa strategia, già annunciata e ben presto applicata, che i mercati interpretano correttamente come una deliberata svalutazione del dollaro. Almeno un aspetto virtuoso ce l´ha: se l´America deve imparare a vivere finalmente in modo più frugale, e smettere di spendere al di sopra dei suoi mezzi, il dollaro debole la "impoverisce" verso il resto del mondo e ridimensiona il suo tenore di vita in termini di beni che può importare. La svalutazione selvaggia ha però molte conseguenze negative. Avvicina il momento di una perdita fiducia nel debitore sovrano più grosso del mondo, che è appunto l´America: e quello sarà un momento drammatico. A più breve scadenza, come ha ricordato Mario Draghi, la marea di liquidità che le banche centrali stanno creando si riversa sui nuovi mercati "caldi". Sono i paesi emergenti le cui monete vengono sospinte verso la stratosfera dalla speculazione: come il Brasile, il Sudafrica e l´Indonesia. Più qualche paese che emergente non è, come Giappone e Corea del Sud, ma sta ugualmente dalla parte sbagliata e vede la sua moneta salire in modo eccessivo. Anche il rafforzamento dell´euro rischia di proseguire: è la cinghia di trasmissione attraverso la quale le difficoltà dell´economia americana si riversano sull´Eurozona. Il ritorno di una speculazione scatenata, che le nuove regole della finanza non riescono a disciplinare, può significare che presto rivedremo un vecchio film: l´esplosione di una bolla. Che la prossima sia una bolla dei paesi emergenti non ne riduce la pericolosità, vista l´integrazione tra noi e loro. Il comunicato del Fmi si è chiuso con la promessa di «lavorare a una crescita globale più equilibrata». Quello che accade è l´esatto contrario.