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 2010  ottobre 09 Sabato calendario

«IL VILLAGGIO È GLOBALE MA INVISIBILE»


Negli Anni Sessanta si parlava di linguistic turn, quando le scienze umane si modellavano sui paradigmi della linguistica. Ora si parla di spatial turn. Almeno a partire da Deleuze i filosofi si presentano come cartografi, e del ’94 è la Geofilosofia dell’Europa di Massimo Cacciari. Gli storici sempre più spesso associano l’asse dello spazio a quello, a loro connaturato, del tempo: Karl Schlögel prende le mosse da quello che chiama «Il ritorno dello spazio». E ragionano sempre più in termini geografici gli storici della letteratura: se fu a lungo un isolato il Carlo Dionisotti di Geografia e storia della letteratura italiana, l’ormai imminente Atlante della letteratura italiana Einaudi curato da Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà si annuncia come manifesto di una nuova egemonia disciplinare.
Franco Farinelli è il maggior geografo italiano. Nel 2003 ha rotto un argine pubblicando Geografia nella serie di Filosofia della Piccola Biblioteca Einaudi. L’anno scorso gli ha tenuto dietro La crisi della ragione cartografica: dopo la sua Geografia Fisica, quella Politica. In entrambi una struttura rigidissima (dopo le rispettive introduzioni, 98 capitoli della durata fissa di due pagine… quasi Centuria di Giorgio Manganelli!) imbriglia un flusso rizomatico, un balenare mercuriale di affondo eruditi e cortocircuiti intellettuali (lampeggianti per esempio due paginette che rivoluzionano l’interpretazione di Moby Dick…).
Fa notare Farinelli come nell’estate del ’69, quando tutti stanno col fiato sospeso per l’Apollo 11, per la prima volta due computer prendono a comunicare fra loro: «non si trattava della conquista dello spazio , ma al contrario della sua fine». Un’altra rivoluzione inavvertita si consumò nel ’76, quando durante la finale degli Europei di Calcio l’attaccante cèco Panenka beffò il portiere tedesco con un rigore a pallonetto - l’antenato del «cucchiaio» di Totti. Quella nuova curva, introdotta nella «rettilinea sintassi dello spazio», segnava «l’inizio dell’età della globalizzazione».
Amputato di senso dell’orientamento come sono, orfano del navigatore satellitare di cui sono schiavo, per raggiungerlo al Dipartimento di Discipline della Comunicazione - dove lavora - mi sono stampato da Google Maps una quantità di videate del centro di Bologna. Quando me le vede in mano, Farinelli sorride sardonico.
Un’autobiografia intellettuale in pillole. O, diciamo piuttosto, su grande scala.
«Dopo il Liceo classico in Abruzzo, giunsi a Bologna nel 1967. Alla facoltà di Lettere scoprii una materia meravigliosa, la geografia. Oggetto della mia tesi era il villaggio indiano, e nel ’70 andai a fare ricerca sul campo. La mia mappa però indicava la presenza di villaggi in posti in cui non ce n’era traccia. Pensavo fosse arretrata, poi capii che i villaggi c’erano, ero io che non li vedevo. Per un occidentale "villaggio" è un insieme di abitazioni; in quella cultura invece è un pezzo di terra dotato di nome perché vi esistono diritti fondati sui prodotti del suolo (ne scrissi nel sesto volume della Storia d’Italia Einaudi, l’Atlante al quale mi chiamò a collaborare Lucio Gambi). Per la prima volta mi colpì il potere ontologico della mappa: il fatto cioè che alla realtà si fosse sostituita la logica cartografica».
Quando si è reso conto che questa disciplina particolare era in realtà un sapere intersistemico?
«Andando a insegnare a Ginevra e poi in California, ho avuto modo di conoscere grandi geografi che erano degli eretici, dei filosofi naturali - anche se non si sono mai dichiarati tali. Per esempio David Harvey si reputa una specie di sociologo economista, ma è un geografo».
Quello che più mi colpisce, appunto, è il respiro filosofico dei suoi libri. Ogni pagina «squadra il foglio», ripercorre cioè una tradizione di pensiero a partire dalle sue origini.
«Da piccolo una volta venni bocciato in disegno e la pratica mi è rimasta ostica finché non ho capito che ogni volta che squadriamo un foglio rimettiamo in scena lo scontro tra Ulisse e Polifemo. Credo sia questa la molla di tutto il mio lavoro. Folgorante, nei libri di Giorgio Colli, fu l’incontro coi filosofi presocratici. Strabone dice che il filosofo è un geografo; e davvero, prima di Platone, c’erano questi personaggi straordinari che hanno inventato i modelli sui quali continuiamo in sostanza a fondarci: Talete, Anassimandro, eccetera. In qualche misura, oggi siamo tornati lì. Siccome la nostra è un’epoca di radicale mutamento, abbiamo di nuovo bisogno di un pensiero radicale: che si faccia carico, cioè, del problema dell’origine. Peccato però che anche nelle Università, in questo recinto che resisterà ancora per poco, la possibilità di un pensiero radicale diminuisca ogni giorno. Oggi la geografia l’hanno abolita anche dagli Istituti tecnico-nautici, segno di un disprezzo per le proprie origini che la cultura occidentale coltiva da millenni. Più che i problemi dell’ecologia, mi preoccupa il progressivo scollamento tra il funzionamento del mondo e le nostre capacità di comprenderlo».
Nella «Crisi della ragione cartografica» c’è una delle spiegazioni più convincenti che io conosca, del fenomeno definito «globalizzazione». Qui muove una serie di obiezioni a Peter Sloterdijk...
«Amo molto lo Sloterdijk della Critica della ragione cinica. Nel ciclo di Sfere, invece, s’innamora troppo di quest’idea… lo specifico della modernità è la mappa, non la sfera».
Alla fine del libro introduce il concetto di Rete e fa capire che è solo con la rivoluzione telematica che si può davvero passare dal piano della Tavola a quello della Sfera.
«Oggi la Rete ha eliminato lo spazio e il tempo. Non significano più niente per il funzionamento del mondo. Possiamo a stento figurarci un mondo senza spazio né tempo ma non possiamo ancora spiegarlo, perché queste categorie sono il fondamento del nostro modo di pensare. Per capire questa dimensione bisogna dunque, come dicevo, fare uno sforzo di semplificazione radicale. Tornare all’arcaico: non solo quello che abbiamo alle spalle ma anche quello che abbiamo di fronte. Socrate, per esempio, veniva accusato di mettere in questione le cose che stanno in cielo e quelle che stanno sotto terra. Cominciava allora il disprezzo per ciò che è visibile, patente, appartiene alla terra. Ma proprio oggi che a governare tutti i processi è qualcosa di invisibile, cioè appunto la Rete, dobbiamo riscoprire l’importanza di ciò che si vede. Nella modernità le mappe sono state le migliori macchine per capire il funzionamento del mondo, ma ora abbiamo bisogno di nuovi modelli che possano guidarci anche quando il sistema spazio-tempo non funziona più».


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