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 2010  ottobre 09 Sabato calendario

VADO IN GIAPPONE E CONFRONTO L’ITALIA


Claudio Giunta, italianista, medievista, insegnante presso l’università di Trento, ha il particolare dono di sapersi occupare di critica della cultura con uno sguardo molto lucido sul presente e con uno strumento meraviglioso, cioè la lingua italiana, che scorre dalla sua penna (tastiera, penso, in verità) fresca e come rigenerata: è un piacere squisito leggerlo.
Il suo libro Il Paese più stupido del mondo, che prende le mosse da un soggiorno di un paio di mesi in Giappone come docente invitato dall’università, ha davvero molti pregi, ma se si vuole indicarne uno su tutti potrebbe essere questo: è un saggio di critica culturale assai colto e intelligente, senza essere neanche un po’ «culturalista». Cioè senza mettere in scena nessuna delle mosse e delle posture di chi crede di poter cogliere l’essenza di una civiltà e di un assetto sociale per il semplice fatto di «essere un intellettuale». No, al contrario, è come se Giunta si predisponesse ad affrontare il Giappone a mani nude, come un elemento chimico che vada a infilarsi in una miscela complicata e sconosciuta e con essa sia pronto a reagire, anche imprevedibilmente.
Il fatto è che questo elemento chimico, cioè l’italianista esperto di Dante, è anche e prima di tutto un italiano. Cosa verrà fuori da questo incontro? Verranno fuori un sacco di cose, ma soprattutto emergeranno specularmente, una di fronte all’altra, due immagini decisive: quella dei giapponesi visti da noi e quella degli italiani visti da noi. Questa seconda è persino toccante.
Senza preamboli, la motivazione che spinge l’autore ad accettare immediatamente l’invito accademico è questa: «Starci due mesi è l’unico modo per capire qualcosa del Giappone, cosa che probabilmente si può dire e si dice di qualsiasi luogo del pianeta, ma per il Giappone di più; e perché volevo prendermi una vacanza dall’Italia, un paese in cui sembra che tutti quanti si siano messi d’accordo per fare ogni cosa alla cazzo di cane». Ed è di noi che il libro parla, parlando di loro.
Una domanda scorre sotto tutto il testo, cioè: quale prezzo devono pagare i giapponesi per tenere insieme il modo di vivere del Giappone? Per essere così organizzati, per avere abolito l’improvvisazione, la casualità, il pressappochismo, per aver costruito una società infinitamente complessa e infinitamente funzionante, e così via. Non ci sarà una risposta univoca, naturalmente, lo spettro delle risposte va dall’estremo «numerosissimi suicidi» a quello «nessun prezzo assolutamente», a seconda di come viene letto il Giappone, da chi lo legge (l’espatriato che ormai vive là, il funzionario che ci passa e vive di privilegi, e così via, in una galleria molto interessante di personaggi che popolano le pagine di questo saggio come se fosse un romanzo).
La sua gemella è: quale prezzo paghiamo noi italiani per vivere come viviamo in Italia? Qui la risposta, per quanto confusamente percepita, possiamo dire di conoscerla un po’ tutti. E poi: esiste un modo medio fra i due? Forse sì, nel triangolo Parigi-Berlino-Stoccolma. Forse.
Le osservazioni contenute in questo saggio sono numerosissime, non si può darne conto dettagliatamente. Però due o tre cose vanno dette, per rendere almeno il sapore del libro. La prima è che non possiamo illuderci di non avere pregiudizi. Li abbiamo, e molti sono pregiudizi talmente squallidi da farci vergognare. Ma l’unica via d’uscita è accettarli e metterli alla prova dei fatti. Molti crolleranno, e questo sarà assolutamente sano. Fingere di non averne significa perpetuarli e rafforzarli.
La seconda è che va accettata e addirittura valorizzata la visione necessariamente di superficie che si ha di una realtà così stratificata e complessa come una diversa cultura è. Fingere di possedere una chiave di comprensione profonda significa votarsi all’incomprensione totale.
La terza è che proprio le menti più acute hanno imboccato queste strade senza uscita.
L’autore nella sua valigia ha ovviamente stipato molti libri sul Giappone, di molti autori. Si consiglia di vedere che fine fanno, in mano a Giunta, le pagine che al Giappone hanno dedicato Parise, Calvino e Barthes. Non per mera polemica, ma per verificare come non solo il turista frettoloso e becero, a cui il pesce crudo fa schifo, ma anche il raffinato intellettuale può avere gli occhi bendati, non da cotenne di ignoranza ma da lamine dorate, magari, però con il risultato identico di non vedere niente.
Arguto, brillante, spesso divertente, ancorato al buon senso e nutrito di intelligenza, questo libro che si interroga su come siamo (noi e loro, ma insomma tutti), su come viviamo oggi, non rifugge l’amarezza delle occasioni mancate, dello spreco e dell’autolesionismo, non ha e non può avere ricette, non le cerca. Ma ridipinge un quadro che, per il semplice fatto di essere così poco incline alle mistificazioni, va considerato come un incremento di conoscenza per il lettore.