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 2010  ottobre 09 Sabato calendario

«IL DANUBIO DEVASTATO DALLE PRIVATIZZAZIONI»


Alle tre del pomeriggio il dottor Lazlo sistema gli occhialini, si affaccia sulla riva e scruta i due fiumi che si toccano proprio qui, davanti alla sede del Circolo Canottieri Spartacus. È in ciabatte e costume da bagno, ha 71 anni, e avrebbe una gran voglia di metter la sua barca in acqua. «Ma guardate lì, vien giù roba di tutte le tinte. Un paio d’ore fa sembrava panna montata, poi lucido da scarpe, adesso è un impasto color ruggine». Le paperelle si avvicinano e si scansano. Meglio evitare la fanghiglia che viene giù con il Raba. Meglio stare da questa parte, dove il Danubio non è ancora blu e ancora si chiama Mosoni.
Sull’altra riva, proprio sotto la Sinagoga, attracca il barchino di un pescatore. «Niente!», grida al dottor Lazlo. Brutto segno. «Qui di pesci morti non ne abbiamo ancora visti». Ma non vuol dire niente. Non c’è bisogno di veder carpe grasse e immobili sugli argini. Il dottore dice che qui tutti sanno, tutti hanno capito, tutti hanno un amico che stava a Kolontar o a Devecser, tutti conoscono la storia della fabbrica di Ajka e dei suoi fanghi rossi e velenosi. E poi c’è chi ha sentito i racconti dei feriti portati qui a Gyor. E chi guarda la tv nei bar per aggiornare il conto dei morti. Ieri altri tre. E sono arrivati a sette.
Viktor Orban, il premier, giura che «ce la faremo: è la peggior catastrofe ecologica mai avvenuta, ma il Danubio è sotto controllo». Tre giorni, e l’allarme deve rientrare. O deve rimanere nei 40 km quadrati attorno alla fabbrica di allumina e fanghi rossi. Il dottor Lazlo ci crede poco. «Perché questa è una storia che parte da lontano, è una storia che comincia con le privatizzazioni». Consiglia di andare a rivedere la storia di quella fabbrica, di chi era, di chi è stata, di chi è. Passaggi di proprietà e nomi che sono sempre gli stessi, gli stessi di quando l’Ungheria era un regime con la sua nomenklatura.
Prima bisogna risalire il fiume Raba, riprendere il Marcal appena sopra Gyor e arrivare su a Ajka. In macchina sono 70 chilometri. E più si risale più s’incontrano uomini infagottati nelle tute di plastica. Quelli rossi sono i vigili del fuoco, i bianchi della protezione civile, i gialli i volontari di Greenpeace. S’incontra Ferenc Toth, 58 anni, con gli stivali infangati e la vanga in spalla. «Ho sperato e scavato fino a questo pomeriggio - dice - Ora basta. Ho capito che qui non ci sarà più né la mia vita né quella degli altri. E’ finita. Non ho più niente, non mi interessa più niente. Voglio solo che ci sia un colpevole».
E’ irraggiungibile, il colpevole. Quella massa di fango rosso che è scesa giù dalla diga che lo doveva trattenere. «Prima della privatizzazione - aveva spiegato il dottor Lazlo - avevano i permessi per contenere 300 mila metri cubi di fango. Gli operai dicono che ce n’erano almeno dieci volte di più». Ecco perché sarebbe franata, mica per la pioggia, come dicono dalla Mal S.A. «Era tutto in regola, abbiamo rispettato tutte le leggi, non abbiamo responsabilità e non potevamo evitare la catastrofe», dice Layos Tanay, il direttore della fabbrica. Agli sfollati, che sono 3 mila, hanno offerto 400 euro a testa.
Di rosso c’è il fango, gli stivali di Ferenc Toth, le strade, le ruspe, i trattori, l’acqua che scivola dai marciapiedi e ancora s’infila nel fiume Marcal. Qui non dicono che c’era la vasca di contenimento, ripetono che c’era una diga, una vera e propria diga. E’ venuta giù come un Vajont. All’ospedale di Gyor c’era Sandor Hagedus, 49 anni, le gambe bruciate dal fango. «Ero nel mio garage e mi sono accorto di quello che stava accadendo perché ho visto il mio vicino di casa che gridava in cima all’albero. Ho tentato di venir fuori, ma in un attimo il fango mi è arrivato fino alla cintura. Ero un prigioniero. Mi hanno salvato i pompieri dopo due ore. Tirato su con una gru».
Ad Ajka la fabbrica adesso è invisibile. Era lì, con la sua vasca di contenimento, dal 1920, quando avevano scoperto i primi giacimenti di bauxite. Nel 1942 era diventata tra le più importanti d’Ungheria e dal 1963 era sotto il controllo del «Mat», ente di Stato. A metà dgli Anni 90, appunto con l’inizio delle privatizzazioni, «Mat» era stata ceduta per metà agli americani di Alcoa, il resto diviso in società ungheresi. Tempo un paio d’anni e tutta la pruduzione ritorna sotto la «Mal S.A.». Tre soci, a cominciare da Lajos Tolnay, al 21° posto nella classifica degli ungheresi più ricchi, con il 40%. Tre soci con una storia sempre in bilico tra la politica e gli affari.
Ora, a sentire Balasz Holzer, 29 anni, che dalla casa ha salvato solo un orologio a cucù, «siamo vivi e però vogliamo sapere quale sarà il nostro futuro, dobbiamo trovare e punire i responsabili». Il fango rosso è ancora tutto qui, a bruciare erba, terra, piante, la pelle di chi lo tocca. Appena si secca comincerà il nuovo pericolo, le polveri hanno microparticelle cancerogene. Le 300 famiglie di Kolontar e Devecser hanno chiesto il sequestro della fabbrica. Gyorgy Magyar, l’avvocato che le assiste, teme che possano rimanere beffati. «La Mal, proprietaria della fabbrica, dice di non avere responsabilità e però si offre di indennizzare le famiglie. Forse temono l’inchiesta e il processo».
La fabbrica di Ajka è chiusa, inagibile. Ma sono chiuse anche le altre fabbriche di alluminio della Mal, 10 mila operai a casa. Il sindacato dei chimici ha chiesto la riapertura immediata, almeno per le altre. E come il dottor Lazlo, in un comunicato, se la prendono con «un sistema di privatizzazione selvaggia che insegue il profitto dimenticando la sicurezza di chi lavora e di chi abita attorno alle fabbriche». Il governo deciderà domani, quando arriveranno risposte anche dall’Unione Europea. Al momento la linea sembra quella dell’emergenza finita, non ci sarà il bel Danubio rosso, l’acqua resterà potabile e solo Greenpeace e Wwf preparano l’elenco delle «altre bombe ungheresi ad orologeria».
Ma tra Kolontar e Devecser interessa poco. E’ rimasto solo il fango rosso, qui. 40 chilometri quadrati di puzza acida e desolazione. «Quel fango è stata la nostra bomba, mia moglie mi ha già detto addio - racconta Balazs Holzer - E’ convinta di aver preso il cancro». Quando ha abbandonato la casa Balazs ha buttato le chiavi nel fango. «Non ci torno più in questo posto, non voglio più sentir parlare di fabbriche e alluminio». Scende a Gyor e pure lui andrà a controllare i colori del Danubio. Se i vecchi pescano le carpe. Se le paperelle tornano ad attraversare il fiume. E se la Canottieri Sparyacus riapre. «Perché quello - come dice il dottor Lazlo - sarà il vero segnale dell’emergenza finita».