Mario Deaglio, La Stampa 11/10/2010, 11 ottobre 2010
TREMONTI E IL RIGORE. L’ALTRA FACCIA DEL BERLUSCONISMO
Berlusconi racconta barzellette, Tremonti scrive libri. Quando Berlusconi è ottimista, Tremonti è cauto, talvolta gelido; quando Berlusconi dice che la crisi non esiste, Tremonti si lascia andare a un silenzio molto eloquente. Gli storici che in futuro studieranno l’attuale, tormentato periodo storico probabilmente individueranno in Tremonti, assai più che in Bossi o in Fini, l’altra faccia del «berlusconismo» ossia della somma di istanze, aspirazioni e paure trasformatasi in vasto movimento politico per l’azione carismatica del presidente del Consiglio.
Tremonti non è più un tecnico prestato alla politica. Si è confermato in questi anni come politico con una solida armatura culturale e concettuale che gli deriva da un passato da professore. La sua parabola parte dalla richiesta vibrante di «più libertà, meno tasse» per il «popolo delle partite IVA», i milioni di lavoratori autonomi e piccoli imprenditori che si sentono tartassati dal fisco per passare poi all’obiettivo, apparentemente contraddittorio, di «maggior protezione», a livello europeo, per questi stesso soggetti economici contro gli eccessi - dei quali è stato uno dei primi ad accorgersi - della globalizzazione. Ha mantenuto una forte diffidenza nei confronti di grande industria e grandi banche e sviluppato una certa dimensione etica (introduzione della porno tax, istituzione della social card).
Con queste priorità iniziò l’8 maggio 2008 il suo quarto mandato di ministro economico. Il suo percorso era chiaramente condizionato all’esterno dalla pesantissima situazione del deficit e del debito pubblico italiano; e all’interno dall’impegno del manifesto politico del Popolo della Libertà, di «non mettere le mani nelle tasche degli italiani», ossia di non introdurre nuove imposte. E’ difficile dire quanto la sua prima mossa - l’abolizione dell’ICI sulla prima casa all’inizio del mandato - sia stata una sua iniziativa o non piuttosto sollecitata dal Presidente del Consiglio perché promessa agli elettori. Di certo, con il senno di poi, alla luce dell’aggravarsi della crisi finanziaria mondiale e delle strette sulla spesa, una minore riduzione dell’ICI avrebbe comportato minori tagli alla spesa pubblica e sarebbe stata complessivamente più accettabile a moltissimi italiani, compresi molti della sua area di riferimento.
Il brusco aggravarsi della crisi pochi mesi dopo il suo insediamento ha acuito da un lato le pressioni economiche europee perché l’Italia, in base ai patti internazionali, non superasse determinati livelli di spesa, disavanzo e debito pubblico e dall’altro le pressioni politiche della maggioranza che sosteneva il governo che invece reclamava misure in senso esattamente contrario per non perdere consensi. Gli si deve dare atto di aver rispettato gli obiettivi concordati con Bruxelles mantenendo la credibilità finanziaria internazionale dell’Italia, mentre quella di altri paesi, Grecia e Portogallo, Irlanda e - in parte - Spagna, veniva pesantemente intaccata; e di aver resistito alle pressioni interne dei ministri della spesa minacciando ripetutamente le dimissioni (che in ambito europeo il presidente del Consiglio non si poteva permettere).
Lo ha fatto seguendo due strade non convenzionali. La prima è stata quella di costringere le autorità locali, e segmenti importanti dell’amministrazione centrale, a cominciare dalla scuola, a una forte compressione della spesa. Sindaci e presidenti di regione di ogni colore politico hanno fatto pressioni perché la stretta venisse alleviata, trovandolo irremovibile, sempre con le dimissioni in tasca. La seconda è stata quella di incrementare le entrate favorendo, con lo «scudo fiscale» e il pagamento della relativa (leggera) imposta, il rientro di un’ingente massa di capitali più o meno illegalmente detenuti all’estero.
Lo «scudo fiscale» ha suscitato disapprovazione morale essendo percepito come una sorta di condono a vantaggio dei ricchi ma ha indubbiamente fatto entrare nelle casse dello stato alcuni miliardi di euro che gli hanno permesso di non aumentare le imposte convenzionali e Tremonti potrebbe vantarsi di aver fatto pagare qualcosa a una fascia di ricchi che altrimenti non avrebbe pagato nulla. Se in governi passati poteva essere indicato come il ministro dei condoni, soprattutto a favore dei lavoratori autonomi, ora è sempre più il ministro delle multe: va infatti sottolineata l’efficacia con cui conduce la lotta all’evasione che quest’anno dovrebbe recuperare 8-9 miliardi di euro, assai più del recente passato.
Tremonti effettivamente non ha messo le mani nelle tasche degli italiani, anche se, con la riduzione dei servizi pubblici, le tasche sono diventate molto strette e la barca dell’economia, pur provata dalla crisi, è rimasta a galla; il che è un risultato non piccolo. Il motore però è quasi spento e non si sa bene dove andare. Il che è una sfida molto più grande.