Francesca Paci, La Stampa 11/10/2010, 11 ottobre 2010
SONO LE TERRE DEL SUD A PIANGERE PIU’ CADUTI
Se penso che tre anni fa eravamo andati insieme a fare le prove per entrare nell’esercito... quando mi scartarono e presero Marco, mi sembrò così fortunato a essersi assicurato un posto fisso» ripensa il ventiduenne Mino, felpa a righe, jeans scoloriti, anello d’osso al lobo sinistro. La famiglia Pedone ha appena lasciato Patù scortata dai militari che l’accompagnano a Roma e gli amici del caporal maggiore ucciso sabato in un attentato in Afghanistan stazionano un po’ stonati davanti al bar Eden, lo snodo del paese dove trovi tutto il necessario per cominciare la domenica, dal giornale sportivo già stropicciato dai più mattinieri alla schedina del superenalotto.
La morte del giovane alpino segna il tempo della piccola comunità salentina. E non solo perché le campane impazzano dall’alba. Le comari che abbassano la voce passando davanti alle serrande abbassate della villetta di via Toti raccontano il vuoto affettivo dei genitori e le sorelle ma anche quello esistenziale in cui giorno dopo giorno sprofondano i coetanei di Marco, la maggior parte dei ragazzi di questa estrema costa pugliese mezzo storditi dallo scarto tra l’azzurro infinito del mare e il futuro bloccato in un labirinto di muretti a secco.
Mino è disoccupato, Giuseppe e Giovanni sono apprendisti in un’azienda che lavora il ferro, Sandro guadagna qualcosa nei campi ma, ammette, «per dieci euro non vale la pena starsi a litigare un ingaggio con gli albanesi». Mentre su un lato di via Giuseppe Romano i padri, come l’edile Domenico, discutono l’opportunità politica di ritirarsi dall’Afghanistan e «con i taleban se la vedano loro», i figli, schierati sul marciapiede di fronte, minimizzano i rischi paragonandoli a quelli di «qualsiasi professione» e vagheggiano lo stipendio del soldato, unica vera chance, a meno di non fare le valigie, per andare a vivere da soli, comprare un’automobile, magari sposarsi e avere un bambino.
«Qui in Salento la carriera militare è da generazioni e generazioni lo sbocco privilegiato per il posto statale, fisso, tranquillo» spiega il sindaco Angelo Galante. Quel che è cambiato è il contesto globale e se ieri la divisa s’indossava linda dietro una scrivania o al massimo su una nave della Marina, oggi ha ceduto il passo alla mimetica inzaccherata della sporca trincea del fronte. Pochi mesi prima di Marco Pedone è toccato a Luigi Pascazio, Pierdavide De Cillis: negli ultimi sei anni, dall’inizio della missione Isaf, sono morti in Afghanistan 34 soldati italiani, sei di loro erano pugliesi. Altri quattro, cresciuti come il caporal maggiore Pedone tra i flutti dello Ionio e l’Adriatico, hanno perso la vita in Iraq. Per chi suonerà la prossima campana?
«Almeno ci fosse ancora la Filanto, il calzaturificio in cui lavoravano almeno mille dei 1700 abitanti di Patù» nota l’assessore al Turismo Stefano Cagnazzo. Invece c’è l’estate. Una miniera d’oro, certo. Ma quanto dura? Nonostante il boom degli ultimi anni la Puglia mantiene un tasso di disoccupazione del 17,5%, sette punti più alto di quello nazionale, e secondo il rapporto Svimez 2010 ha cominciato a riscoprire in modo massiccio l’emigrazione verso il Nord Italia.
«A luglio e agosto faccio il cameriere, c’è il pienone, dopo due mesi però è tutto finito e non si campa con tremila euro l’anno» ragiona Luca, seduto con gli amici sugli scalini della chiesa di San Michele Arcangelo. Dalle persiane accostate contro il sole ottobrino ancora abbacinante la televisone diffonde le note dell’Angelus. Quando è nato, nel 1990, la leggendaria Filanto, dove prima di reinventarsi bidello era stato impiegato anche Michele Pedone, il papà di Marco, aveva già chiuso i battenti. Eppure Luca la rimpiange ancora: «Lo so che potrei andare all’università a Parma, a Milano, però sono nato qui». La nostalgia delle viti selvatiche che sbucano tra i fichi d’india è una condizione dell’animo che comincia prima di partire e allontana l’orizzonte.
«Conoscevo Marco come un figlio, l’ho comunicato e cresimato, era uno di quelli che ci teneva, che voleva crescere, migliorare» ricorda don Agostino Bagnato, parroco di S. Maria Immacolata sin dal 1997. All’uscita dalla messa di mezzogiorno le famiglie si fermano sul sagrato. L’eco dell’attentato in Afghanistan è rimbombata come se fosse avvenuto a pochi metri alla chiesa. «Marco era un amico, un ragazzo solare, la sua morte ci colpisce tutti» taglia corto Letizia Zefferino.
Compiangere la famiglia è istintivo, Michele e Assuntina sono davanti agli occhi, pietre fondanti del paese come quelle color ocra del campanile. Per immedesimarsi in Marco che non c’è più invece bisogna fare un passo ulteriore e chiedersi perché è partito lasciandosi alle spalle via Toti e i gerani curati dalla mamma. I padri abbassano lo sguardo, i figli lo lanciano lontano.