Maria Lombardi, Il Messaggero 9/10/2010, 9 ottobre 2010
STEFANIA, CRISTINA E LE ALTRE: TRADITE DUE VOLTE IN FAMIGLIA
Mario era lo zio buono per Stefania, quello che c’è in ogni ricordo e in ogni foto. Era lì, quando è nata, eccolo che la tiene in braccio a pochi mesi, è sempre lì a tutti i compleanni insieme alla figlia Vittoria, cugina e amica del cuore della ragazza. La notte del 20 ottobre 1984 il calzolaio di 51 anni è nel suo piccolo appartamento al pianterreno vicino Porta Maggiore, a Roma, accanto alla bottega dove lavora col cuoio e la colla. Fuori piove, davanti a lui, su una vecchia poltrona, c’è il cadavere della nipote sedicenne, Stefania Bini. L’ha appena uccisa con un colpo di pistola, prima ha tentato di toccarla ma lei l’ha respinto. «Ho sparato mentre dormiva, non ha sentito niente», dirà mesi dopo. La stessa premura di Michele Misseri, lo zio di Sarah, «non ha sofferto», l’illusione di un gesto di pietà. La stessa freddezza di altri zii assassini: dal sorriso alla smorfia crudele, dalla fiducia rubata alla violenza, all’improvviso mostri. E forse un po’ orchi lo erano già prima e si mascheravano da zii buoni o erano coperti dal silenzio degli altri. «A volte il silenzio dei parenti è colpevole, altre volte è un atteggiamento colposo, meno volontario», sostiene la criminologa Isabella Merzagora. «E’ il non voler accettare una cosa così atroce». Il mostro è qui, ed è un padre, un fratello, un cognato. Stefania, Cristina, Antonella, Ninfa, Virginia, Sarah, vittime di un doppio tradimento, l’inganno e poi la morte. Davanti, gli occhi di un uomo che non riconoscevano più.
Anche Stefania Bini, come la quindicenne di Avetrana, sperava di incontrare la cugina quel pomeriggio d’autunno, era andata a casa dello zio proprio per questo, lui le aveva promesso che Vittoria sarebbe arrivata. Non era vero. Mario Squillaro chiude il corpo di Stefania in un baule, scava un buco nel pavimento, proprio sotto il letto matrimoniale, e poi ricopre accuratamente, terra, ferro e mattonelle. Sistema sopra le piastrelle la moquet e per mesi dorme sopra il cadavere della nipote. Il suo folle piano è solo a metà: vuole chiedere un riscatto alla famiglia della nipote, «460 milioni per rivedere vostra figlia», si finge mediatore con la banda di rapitori. Viene scoperto e il 13 ottobre del 1985 indica agli investigatori le mattonelle sotto il letto, Stefania è lì. «Sono un mostro, un mostro pericoloso», confessa. Lo condannano all’ergastolo.
Uno zio disperato, il mostro di Marsala: piange davanti alla tv per la scomparsa della nipote undicenne, parla con i giornalisti, partecipa alle ricerche, fornisce agli investigatori spunti per le indagini, come nei giorni scorsi lo zio di Sarah. Segue la bara bianca, i cronisti dell’epoca raccontano le sue lacrime al funerale. Eppure è lui, Michele Vinci, ad avere rapito e ucciso tre bambine. Antonella Valenti, la nipote, e le due cuginette Virginia e Ninfa Marchesi, 9 e 7 anni, scompaiono a Marsala il 21 ottobre del 1971. Dopo 19 giorni, Vinci mostra il pozzo dove ha gettato le due più piccole, «il mostro sono io», ma non spiega mai perché l’ha fatto. Perché si è liberato delle due cuginette lanciandole nel vuoto e lasciandole morire di fame e sete in fondo a un pozzo. E perché ha tenuto prigioniera Antonella in un casolare e poi l’ha soffocata col nastro adesivo. Antonella si era fidata dello zio Michele ed era salita in macchina, quel pomeriggio, con le cugine.
Michele Perruzza si è portato fino alla morte il marchio di «mostro di Balsorano», ma ha sempre giurato di essere innocente. E in un intreccio di bugie, accuse e mezze verità, la morte della nipote Cristina Capoccitti è sempre rimasta un mistero. E’ il 23 agosto del 1990: Cristina, 7 anni, esce di casa con in mano uno yogurt e non torna più. Mauro Peruzza, il figlio tredicenne di Michele, tre giorni dopo confessa: sono stato io. Ma poi cambia versione e punta l’indice con il padre, accusato anche dalla moglie. Mauro racconta di aver visto, dal tetto di un capanno, il padre strangolare Cristina dopo aver tentato la violenza. Il muratore, emigrato in Australia e poi tornato a Ridotti, viene arrestato e poi condannato in via definita all’ergastolo. Tace per tanti anni, solo in Cassazione dice che il responsabile dell’omicidio è il figlio. Muore in carcere tredici anni dopo la nipote.
E senza colpevoli resta la morte di Palmina Martinelli, trovata bruciata nella sua casa di Fasano l’11 novembre del 1981. Resta in vita, al policlinico di Bari, fino al 2 dicembre e accusa i due fratellastri. Racconta che volevano costringerla a entrare in un giro di prostituzione e lei rifiutava. Ma il processo finisce con le assoluzioni dei due ragazzi.
L’ultimo zio assassino appena un mese fa a Rimini. Nessun inganno, solo un odio coltivato in silenzio e raccontato in una specie di diario della follia. L’ingegnere Stefano Anelli, 62 anni, uccide la nipote Monica, giovane avvocato, con il dardo di una balestra sulle scale del palazzo dove entrambi abitavano. Poi si suicida con la stessa arma.
Anche lei tradita dallo zio. «E’ una figura affine al padre, le bambine e le adolescenti tendono a fidarsi. Per una questione di età differente e di ruoli, hanno difficoltà a proteggersi dalle violenze», spiega ancora la criminologa. «In caso di incesto, subiscono le minacce e hanno paura a parlare. Sono tantissimi i casi che non emergono e restano nascosti, pochissime le denunce. Eppure la maggioranza delle violenze sessuali sui minori avviene in famiglia». Si cercava l’assassino di Sarah seguendo le tracce lasciate su Facebook, bastava ripercorrere i suoi ultimi passi, erano pochi passa da casa.