Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  ottobre 09 Sabato calendario

LO YUAN CHE FA PAURA AI GRANDI

Xhou Xiaochuan, governatore della Banca centrale di Pechino, ha appena finito un dibattito con il Premio Nobel, Joseph Stiglitz. Quando i due scendono dal palco una giornalista cinese si attacca a Stiglitz, ma è l’ economista newyorkese ad anticiparla con una domanda: «Ha seguito Xhou? Che impressione le ha fatto?». «Perfetto - fa entusiasta la ragazza -. Non ha detto assolutamente niente». Forse perché nelle élite di Pechino è fra i più aperti al mondo, Xhou sa che è meglio per lui restare nel guscio. Meno di due mesi fa qualcuno aveva messo in giro la voce che fosse fuggito all’ estero. Ora l’ uomo che siede sul 40% delle riserve valutarie mondiali e che è padrone delle sorti dello yuan, la moneta che fa paura ai Grandi, è davvero lontano da casa, a Washinghton, ma per una missione istituzionale quasi impossibile: far sentire la Cina meno sola in questi giorni di incontri fra 187 Paesi al Fondo monetario internazionale. Anche in questo "Doctor Xhou" è stato praticamente perfetto. La Cina mercantilista e manipolatrice, presunta colpevole della "guerra delle monete" di cui parla il ministro brasiliano Guido Mantega, ha più amici di quanto si creda. Sicuramente ne ha più di quanto speri il G7 dei Paesi ricchi che ieri sera, nella notte italiana, è stato riesumato per mettere Pechino sotto pressione. Americani, europei, giapponesi, canadesi sono divisi su quasi tutto, ma uniti su un punto: vogliono trovare il bandolo della matassa e costringere Pechino a rivalutare lo yuan. Da anni la banca centrale di Xhou interviene a ritmi da un miliardo al giorno per comprare dollari e impedire che la propria moneta si apprezzi. E uno yuan artificialmente debole è tutto vento nelle vele dell’ export cinese, il primo al mondo per volumi, che continua a sottrarre quote di mercato a tutti. «I successi iniziali nel contrastare la crisi rischiano di essere azzerati dagli sforzi minimi di certi Paesi - ha tuonato il segretario al Tesoro americano Tim Geithner -. C’ è chi fa ostruzione alla rivalutazione della propria valuta». Eppure non tutti sono ostili ai cinesi come vorrebbe il G7. Ieri a Washington, la tela tessuta da Xhou e dal suo premier Wen Jiabao è chiaramente venuta alla luce: se non è una sfera di influenza alla sovietica, sicuramente è una rete di interessatissime simpatie. Quando ad esempio il governatore Xhou è stato attaccato da Christina Romer, l’ ex consigliera di Barack Obama, a prendere le sue difese è arrivato George Papaconstantinou. Greco, ministro delle Finanze, impegnato a vendere a Pechino il suo pericolante debito e il controllo dei porti del Pireo e di Salonicco: Papaconstantinou ha molti motivi per andare d’ accordo con Pechino, e ieri si è visto. «I tassi di cambio non sono il solo problema dell’ economia mondiale - ha detto -. Le placche tettoniche del mondo si stanno spostando, dobbiamo prendere atto del peso delle nuove potenze». Su una linea simile, il governatore di Israele Stanley Fischer ha interpretato alla perfezione la visione del mondo di Pechino e si è incaricato di spiegarla: «I Paesi emergenti non hanno creato questa crisi, semmai hanno contribuito a contenerla continuando a crescere. È difficile spiegare loro che ora non devono intervenire sulle proprie valute». Più facile invece capire il perché di questa apologia di Fischer per le politiche dello yuan: anche la Banca d’ Israele interviene massicciamente per bloccare la rivalutazione della sua moneta, lo shekel. E così i coreani, gli indonesiani, i tailandesi, i taiwanesi, gli svizzeri, i brasiliani, mentre l’ indiano Rajiv Kumar ieri a Washington ha avvertito che la riesumazione del G7 può creare altri guai: «Rischiamo di disintegrare il G20» (dove siedono anche India e Cina). E in queste condizioni, Xhou può continuare a dire che il suo Paese si muoverà, sì: «Ma, per favore, gradualmente».
Federico Fubini