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 2010  ottobre 09 Sabato calendario

L’ACCANIMENTO POST MORTEM DI NOI GIORNALISTI

Non ho letto neanche una cronaca fra tutte quelle apparse ieri sulla terribile fine di Sarah Scazzi. Mi sono bastati i titoli di tutti i giornali. E già quelli mi sono sembrati di troppo.
Dopo averli letti ho una domanda, che rivolgo a tutti i colleghi che ne hanno scritto e a quelli che hanno composto il titolo in pagina: che bisogno c’era di aggiungere, alla violenza subita da quella ragazza fino alla morte, la notizia della violenza subita dopo la morte? È come se, da morta, l’avessimo violentata un’altra volta anche noi. Di sicuro ne abbiamo violentato la memoria. Abbiamo violentato i sentimenti, già provati dall’indicibile, di sua madre, dei suoi parenti innocenti, dei suoi amici, di chiunque l’abbia conosciuta. Abbiamo aggiunto inutile orrore a una storia già orrida: un’adolescente molestata dallo zio, adescata, portata con forza in una cantina, costretta a subire un tentativo di stupro e infine uccisa. Ci si poteva fermare qui.
Mi direte: sarebbe venuto tutto fuori al processo. Vi dico: potevamo aspettare il processo. Dobbiamo smetterla di sostituirci alla macchina della giustizia e ai suoi doveri a volte crudeli.
Ci siamo scandalizzati in tanti per quell’annuncio in diretta fatto da Federica Sciarelli alla madre di Sarah: sua figlia è morta, lo zio ha confessato, stanno cercando il cadavere, desidera interrompere il collegamento? C’è chi ha scritto che è stato un gesto di delicatezza, altri che si poteva mandare in onda la pubblicità, informare la madre, chiudere il collegamento e poi dare la notizia. Io sto con questi. Ma capisco, per quel poco di televisione che ho fatto, che in diretta non c’è tutto questo tempo di riflettere, ti portano le agenzie e le scorri per la prima volta mentre le leggi a voce alta.
Seduti in redazione il giorno dopo c’è stato tutto il tempo di riflettere. Se si è voluto riflettere. Se il mantra della “notizia” a tutti i costi non si è totalmente impossessato dei nostri cervelli. Che poi questo altro non è che l’alibi deontologico per sollecitare quel gusto per il morboso che sappiamo esserci in gran parte dei lettori e che coltiviamo nascostamente in noi.
Non ho regole da offrire in materia, non c’è un automatismo da applicare: questo si pubblica e questo no. In ogni situazione e in ogni atto dell’uomo non c’è nulla di meccanico, per questo siamo liberi. Liberi perciò anche di trattenerci, di non aggiungere crudeltà inutili alle brutture di cui ci dobbiamo quotidianamente occupare. Non è giornalismo? Forse. Ma anche il soldato non può sempre difendersi dicendo che applicava solo gli ordini. Gli ordini sbagliati non si eseguono.
All’orco di Avetrana non diamo la soddisfazione di essere in contemplazione delle sue atrocità, non diamogli l’illusione (o la consolazione) di una connivenza con l’orco che è in noi.