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 2010  ottobre 09 Sabato calendario

LA RABBIA DEI MANDARINI

Dicono che questo sarà il "secolo cinese". A giudicare dalle reazioni isteriche opposte dal regime di Pechino alla scelta del semisconosciuto dissidente cinese Liu Xiaobo come Premio Nobel per la pace, c´è da dubitarne. La maldestra censura mediatica, la minaccia di sanzioni contro Oslo per quella che il governo della Repubblica Popolare bolla come "oscenità", il nervosismo dei portavoce ufficiali – tutto sembra confermare che il Comitato dei Nobel abbia toccato un nervo sensibile.
Nessuno può infatti ritenere che Liu Xiaobo minacci l´ordine costituito nell´Impero di Mezzo.
Chiunque abbia praticato la società cinese negli ultimi anni sa bene che non siamo in Unione Sovietica, che il dibattito pubblico, per quanto le autorità tentino di controllarlo, diventa ogni giorno più vivace, e che il grado di consenso per il regime è piuttosto elevato. Almeno fintanto che l´economia tira ai ritmi dell´ultimo trentennio. Quanto al modesto arcipelago del dissenso, vi si sprecano notevoli energie in futili rivalità e conflitti intestini. Contro il Nobel a Liu Xiaobo si sono così schierati non solo i leader di Pechino ma – per ragioni simmetricamente opposte – alcuni avversari del regime oggi in esilio e lo stesso Nestore della dissidenza cinese, Wei Jingsheng. Per loro, Liu Xiaobo è poco meno che un traditore, certo non un coerente difensore dei diritti umani e della democrazia.
E allora, perché tanta rabbia fra i mandarini "rossi"? E perché tanto esibita? Perché regalare pubblicità gratuita a un coraggioso quanto inoffensivo letterato, ben custodito nelle carceri cinesi, solo perché ha vinto il Nobel?
Per cercare di rispondere, conviene considerare il contesto. Contro le sue aspettative e contro la sua volontà, la Cina si trova oggi al centro dell´attenzione del mondo. Il "modello americano" non affascina come un tempo, quello europeo, se mai è esistito, non funziona più. Molte potenze emergenti o aspiranti tali guardano al capitalismo autocratico cinese come a un invidiabile contromodello. Americani ed europei sono costretti a sperare che l´economia cinese continui a galoppare, se vogliono disincagliarsi dalle secche in cui si dibattono da almeno tre anni. Insomma, la Cina è oggettivamente corresponsabile del destino dell´umanità. Ma non ama l´idea di accollarsi cotanto fardello.
Se n´è avuta conferma in questi giorni, quando il premier Wen Jiabao ha respinto le pressioni americane per rivalutare lo yuan, con la motivazione che in tal caso salterebbe l´equilibrio sociale che tiene insieme la Cina. Alcuni l´hanno considerata arroganza. Forse. Ma era anzitutto una confessione di debolezza, quasi disarmante nel suo candore.
L´élite di Pechino è meno sicura di sé di quanto voglia apparire. Teme per la stabilità geopolitica dell´Impero (Tibet, Xinjiang, Taiwan) come per la tenuta di una società fortemente diseguale e sempre più anziana, nella quale le protezioni del welfare sono sconosciute o embrionali. Il vascello cinese aveva sperato di continuare a veleggiare all´ombra della corazzata a stelle e strisce, distratta dalla guerra al terrorismo. Gestendo con prudenza la sperimentazione di meccanismi parademocratici, comunque rispettosi delle tradizioni di una civiltà plurimillenaria. Per poi rivelarsi, fra un decennio o due, come la superpotenza del secolo.
Ora che il declino americano è fin troppo visibile, Pechino è chiamata allo scoperto. Conosce poco il mondo, dunque lo teme più del necessario. Il crollo del Muro di Wall Street non era stato né previsto né tantomeno desiderato dagli strateghi cinesi. Quando i conti non tornano, scattano le teorie del complotto. Visto da Pechino, il Comitato di Oslo non è una venerabile congregazione accademica che ogni tanto ama sorprendere il pubblico con lauree controverse (vedi Obama o a suo tempo Kissinger, pacifisti piuttosto improbabili), ma il braccio norvegese del revanscismo americano. Hu Jintao e associati allineano come perle di una collana ostile le recenti "provocazioni" filo-giapponesi di Washington (come nella disputa sulle isole Senkaku). Il Nobel a Liu Xiaobo sarebbe solo l´ultima di tali perle. Ora, è evidente che al Premio Nobel per la pace non sono estranee influenze politiche. Di qui a immaginare che lo assegni la Cia, ne corre.
Ma la violenta protesta cinese risponde anche a sollecitazioni domestiche. I decisori di Pechino devono tener conto del nazionalismo a sfondo xenofobo che serpeggia nella società, dalle università alla scena rock. Alcuni intellettuali teorizzano da tempo la necessità di «dire no», di farsi rispettare per quello che si è – una grande potenza – e non per ciò che si finge di essere – un paese in via di sviluppo. Il bestseller Cina infelice, Vangelo dei nazionalisti, ha venduto più di un milione di copie. I più eccitati, come Wang Xiaodong, sostengono che la Cina di oggi debba fare come l´America (o meglio, l´America di un tempo): reagire colpo su colpo, anche militarmente, a chi ne ostacoli il cammino di gloria.
Fra pressioni internazionali e domestiche, per Pechino è arduo quadrare il cerchio. La tentazione di cavalcare il nazionalismo, magari sperando di domarlo, è quasi irresistibile. L´apertura al mondo e le graduali riforme politiche evocate da Wen Jiabao e da altri leader cinesi rischiano paradossalmente di incentivare la xenofobia: non è più un tabù.
Di certo, la Cina si scontra con la modestia del suo soft power. Non si vive di solo pil. La strada che potrebbe portare Pechino al rango di numero uno è ancora lunga. Forse troppo per la pur leggendaria pazienza dei cinesi.