FILIPPO CECCARELLI, la Repubblica 6/10/2010, 6 ottobre 2010
LA PACE DELLA "PAJATA" - È
molto difficile, e non soltanto all´apparenza, combinare la dignità della politica, la potenza dei simboli e la società dei magnaccioni. Quest´ultima è una greve e anonima canzone romanesca.
Un canto che esprime al massimo grado l´orizzonte esistenziale - «ma che ce frega, ma che ce importa!» - di una specie di tribù non esattamente dedita a coltivare il bene comune, ma a nutrirsi di spaghetti all´amatriciana, abbacchi, polli e a bere vino, molto vino.
Ecco, quest´oggi alle 13,30, a piazza Montecitorio, sotto il palazzo in cui si forma la Norma, il sindaco di Roma Alemanno e il ministro leghista delle Riforme Bossi hanno allestito un grande banchetto per celebrare la riconciliazione tra i cittadini della capitale e il leader padano che appena otto giorni prima aveva tradotto lo storico acronimo SPQR in «Sono Porci Questi Romani».
In un primo momento Bossi, come si ricorderà, aveva insistito tenendo il punto; poi, intervenuto il presidente Berlusconi, aveva parzialmente ridimensionato il suo dire e quindi aveva chiesto scusa alla città. Ad Alemanno è parsa una gran bella occasione per un gesto simbolico e riequilibratore: una specie di gara nella quale la coda alla vaccinara, orgoglio della cucina romana, si sarebbe confrontata con la polenta lombarda. Il tutto per la gioia della cittadinanza - anche se non è chiaro chi e quanti sono gli invitati e ancora meno s´è capito chi paga e quanto.
Prima di esprimere gratitudine varrà la pena di notare che quella piazza, sovrastata dalle eleganti forme di Bernini, ne ha viste tante. Assalti, spogliarelli, pazzarielli, risse, incatenamenti e anche sciami di api impazzite giunte lì da chissà dove. Ma la magnata istituzionale, la sagra gastronomica convocata dall´alto, la tavolata dei potenti che litigano e fanno pace, che se la cantano e se la suonano a seconda delle loro smanie e delle occasioni che loro stessi incessantemente determinano, ecco, quella non s´era mai vista.
Non è una riserva estetica, né uno snobismo. Anzi, se proprio bisogna dire, non c´è rappacificazione che non vada in qualche modo santificata. Ma diamine: non era sempre al ristorante, un pregiato e costoso ristorante trasteverino, che non molto tempo fa Alemanno e i ministri leghisti avevano trovato l´accordo e individuato il percorso per legge su Roma Capitale? La rivelazione si deve al vulcanico vicesindaco Cutrufo, che ha molto a cuore i problemi degli obesi, presentando il suo libro «La quarta capitale» (Gangemi). E qualche giorno dopo, sempre per valorizzare la sua quarta Roma, aveva invitato a cena 90 dignitari.
Pazienza. Ma l´impressione è che pure al di là di ogni ragionevole metafora non solo ogni pretesto è buono pe´ magnà, possibilmente a scrocco, a gratise, ma questa pur indispensabile attività avviene per giunta all´interno di un circuito esclusivo, se non castale certo sempre più lontano dalle abitudini della gente normale. Se poi all´improvvisata artificiosità si aggiunge la più lampante ed elementare strumentalizzazione ecco che l´iniziativa di Bossi e Alemanno assume un tono insieme strambo, primordiale e grottesco, qual è l´ipotetico patto che oggi dovrebbe andare in tavola davanti alla Camera dei deputati .
Nel merito della tenzone gastronomica. Anni orsono la Lega vide fallire (dopo banche, villagi vacanze e sale bingo) anche una serie di supermercati di prodotti alimentari «made in Padania». Rispetto a quanto può dare il Nord in termini di tradizione la polenta sembra in verità una scelta fin troppo facile e riduttiva, peraltro giù messa in atto in occasione della vana e anche assai discutibile crociata contro il kebab.
Mentre per quanto riguarda la fatidica coda alla vaccinara, colpisce che alla ricerca dei sedani necessari alla sua preparazione sia stato delegato quello stesso esponente del Pdl, Cochi, che di recente aveva proclamato: «Vogliamo ricordare il futurismo come un vero ideale di vita». Come se alla prima occasione si potesse togliere dagli altari Filippo Tommaso Marinetti sostituendolo con un Aldo Fabrizi ben disposto a cantare le più viete e meno guerresche abitudini capitoline a base di coda, appunto, rigatoni con la pajata, porchetta di Ariccia e patate a tocchetti.
Ora è ovvio che tra sventolio di mortadelle in aula, distribuzioni elettorali di pasta e pennette ornamentali e tricolore, il cibo funziona da richiamo polemico, identitario e anche simbolico. Eppure, con tutti gli sforzi, la pace della coda e della polenta continua a sembrare fragile nella sua indecorosa assurdità. E prima ancora che sia inutilmente siglata pare di sentire in sottofondo il ritornello beffardo e programmatico che i tempi hanno fatto diventare desolante: «Portace n´artro litro,/ che noi se lo bevemo,/ e poi ja risponnemo:/ embe´, embe´, che c´è?».