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 2010  ottobre 14 Giovedì calendario

IL BABY DITTATORE


Piazza Kim Il Sung è affollata tutti i giorni e a tutte le ore da migliaia di ragazzi in cappellino bianco schierati in fila sotto rami di fiori rosa e palloncini a forma di gabbiani o pesci giganti. Tipico panorama di inizio autunno a Pyongyang: prove di parata. Preparano la grande manifestazione del 10 ottobre, quando il Partito dei lavoratori coreano compirà 65 anni, e in Corea del Nord non c’è anniversario o giubileo che non venga pomposamente celebrato con largo dispendio di energia umana. Il primo congresso del partito in trent’anni si è appena concluso, ma tra i coreani c’è poco entusiasmo. Non sembra importare a nessuno chi sarà la prossima guida del Paese: chiunque succederà a Kim Jong-il sarà rispettato e accolto come nuovo leader. Nel grigio squallore delle strade vuote passano eserciti di magri cittadini. Sembrano marciare invece di camminare, abituati alla penuria di mezzi di trasporto. Sono vestiti tutti uguali, ma non è un’uniforme: gli uomini indossano tutti un abito della stessa forma, pantalone diritto e giubbotto alto in vita, blu o marrone, e uguale a quello di Kim Jong-il. Ciascuno indossa il distintivo rosso con l’effige di Kim Il Sung, padre del presente dittatore, devotamente tenuto da tutti, uomini e donne, vecchi e bambini, sul bavero di giacche e camicette. È il Presidente Eterno, o Grande Leader, distinto dal presente capo di Stato che è invece soltanto il Caro Leader.
Per quanto obbligato sia il sostegno della gente della strada per i suoi capi, è senz’altro appassionato e totale. Anche perché a Pyongyang non esiste l’idea che un leader possa essere criticato, che ci siano alternative o dubbi. Che si possa avere un’opinione diversa. Che si possa votare un’opposizione. La società coreana, nonostante 65 anni di ateismo, è ancora intrisa di confucianesimo. Che significa tolleranza, ai limiti dell’apatia agli occhi occidentali, e rispetto incondizionato per le proprie guide. Per le strade, eserciti di gente accucciata riparano con le mani nude i marciapiedi, e strofinano i muretti con corti spazzolini insaponati. Non sono impiegati dallo Stato, sono semplici residenti gravati dalla responsabilità della cura dell’infrastruttura comune. Lavorano mentre gli altoparlanti rovesciano nell’aria mattutina musiche orientali, incitamenti a tenere le strade pulite, ad andare al lavoro presto ed essere felici nel nome dell’ideologia Juche (quella ufficiale della Corea del Nord).
La Bbc nei grandi alberghi annuncia che il successore di Kim Jong-il sarà scelto fra i tre figli maggiori: non il primo, perché tanto fesso da farsi beccare in Giappone con un passaporto falso, non il secondo, perché di apparenza troppo femminile a parere del padre, bensì il terzo. Ma fuori dalle hall piene di luci delle torri alberghiere con tanto di ristoranti in vetta che girano a 365 gradi, non si sa nulla. Il candidato accreditato alla successione è Kim Jong-un, ma di lui si è vista solo una foto da bambino (ora è stato immortalato accanto al padre a una parata ufficiale), e si dice che ha studiato in un elitario college svizzero, apprendendo tedesco, francese e inglese, e contraendo una passione per il basket americano paragonabile solo a quella del padre per il cinema occidentale. Se oggi a Pyongyang di lui si ignora tutto, fra qualche settimana ai bambini insegneranno canzoncine sulla sua vita e i giornali cominceranno a glorificare gli eventi topici della sua formazione. I pochi coreani avvicinati dagli stranieri si stupiscono che i media occidentali sappiano così tanto della loro vita, del loro Paese, dell’economia flagellata dalle crisi. Loro non sanno neanche quanti figli abbia Kim Jong-il, figurarsi conoscerne il successore.
I coreani lo vedono soltanto dimagrire di apparizione televisiva in apparizione televisiva, ma non possono insinuare niente circa la supposta grave malattia. Per 14 anni Kim Jong-il è cresciuto agli occhi del suo popolo, innaffiato dall’aura del padre, fianco a fianco in tutte le fotografie: quando il padre morì di infarto a 80 anni passati, il figlio era per tutti già il successore. Oggi i due sono onnipresenti in città, appaiono su giganteschi pannelli agli incroci delle strade deserte, nei mosaici della metropolitana tanto simile a quella sovietica, rappresentati in tutte le stagioni, neve e sole, o tra magnifici esemplari di kimjongilia e kimilsungia, le begonie e orchidee che l’Asia ha loro dedicato. Tra poco apparirà al loro fianco il terzo erede, figlio e nipote, ma la seconda successione della dinastia Kim potrebbe anche non attivarsi così serenamente. Kim Jong-un è stato sì, nei giorni scorsi, elevato al rango di generale a quattro stelle, segno evidente di un progressivo avvicinamento al potere supremo. Ma accanto a lui hanno ricevuto lo stesso riconoscimento anche la zia e sorella maggiore di Kim Jong-il e il cognato Jang Song-Thaek, insieme ad altri 36 nuovi generali. Segno che, anche all’interno della famiglia, circolano dubbi su un erede così giovane e la cui successione non è stata preparata come la precedente.
Il Paese non ha mai attraversato un periodo così incerto. Se il potere del defunto padre è concretizzato in un mausoleo gigantesco e nelle statue ambrate che abbracciano il panorama della città, il potere della seconda generazione aleggia astrattamente nell’aria. Nessuno sa indicare il palazzo dove si incontri l’oligarchia, l’esercito o il Politburo, nessuno sa dove abiti Kim Jong-il. Esiste soltanto una città segreta, non lontano dagli alberghi dei turisti, circondata da alti muri e fil di ferro. Da fuori si vedono spuntare case normali, così come per le strade circolano molte Mercedes di terza mano e pochi fuoristrada di lusso. La Corea del Nord appare come uno Stato impoverito, un paese dove un sistema totalitario d’impronta staliniana sopravvive indisturbato. Ma molti analisti scommettono che gli equilibri siano pronti a saltare nel giro di cinque anni.
Non è detto che il popolo accetti volentieri il futuro leader, perché se il primo fondamento del confucianesimo è il rispetto per i capi, il secondo è la deferenza verso l’età matura, e il prossimo regnante potrebbe essere un ragazzo neanche trentenne. I ragazzi per la strada ridono all’eventualità di essere guidati da un coetaneo. Si stupiscono, ma non protestano, per un evento in cui non si sentono tirati in causa. I coreani del Nord vivono in un’isola separata, sanno poco di quello che c’è fuori, ma quello che sanno li induce a voler stare all’interno. Non sono curiosi di parlare agli stranieri, stanno composti e sicuri del loro mondo, saldi nei loro principi. Sanno che là fuori il loro Paese non è amato. Non si fidano di Obama, stimano Putin, ignorano Berlusconi. Sanno che poche centinaia di chilometri più a sud, a Seul, svettano grattacieli lussuosi coperti da pubblicità di prodotti e vestiti che qui non arriveranno mai, ma ripetono che la gente là si veste troppo all’americana, e laggiù la purezza della lingua coreana è minata dall’uso di troppe parole straniere. Sono al corrente dell’esistenza di Internet, ma sembrano quasi riconoscenti di non poterlo usare, visto che Internet è soprattutto un mezzo di corruzione. È sufficiente l’Intranet che si usa per comunicare tra università. Credono in una sola Corea, convinti che gli ingenui fratelli meridionali siano ostaggio degli americani e del loro imperialismo. I canali di Stato trasmettono gloriose immagini di storiche parate, con uno sfavillio di colori e di forme che solo il binomio tra estetica orientale e realismo socialista poteva partorire. Sul palazzo della piazza Kim Il Sung svettano le immagini di Marx e Lenin, e sotto proseguono le prove di migliaia di studenti. È un furto quotidiano di ore e ore, ma nessuno protesta. La stampa occidentale riporta di campi con 250 mila prigionieri, ma gli occhi dei coreani si riempiono di stupore quando glielo si fa presente. Nessuno ci crede. Nelle pause tra una prova e l’altra, gli studenti si riposano sul lungofiume a rimirare i 170 metri d’altezza della Juche Tower. Costruita in onore del settantesimo compleanno di Kim Il Sung, formata da tanti mattoni quanti i giorni vissuti dal Grande Leader.
Ma anche a Pyongyang qualcosa cambia. Hanno aperto nuovi ristoranti, non soltanto quelli che servono i brodi freddi con i noodles tipicamente coreani, e sono apparsi negozi di merce giapponese. La maggioranza delle vetrine è riempita di un solo prodotto, bottiglie verdi di acqua minerale, o stivali di plastica di colori pastello: ma è innegabile che c’è sempre più merce in arrivo dalla Cina, la grande balena che si porterà via il Paese. I coreani parlano di sé come di un gamberetto stretto tra due balene, e i cetacei sono di volta in volta interpretati da Cina e Russia, Stati Uniti e Giappone. Oggi l’unica balena da temere sono gli Usa, e Pyongyang è convinta che sarà Pechino a proteggerli.
Qualcuno dice che il nipote del Presidente Eterno abbia già ricevuto l’ufficiale benedizione di Hu Jintao, sebbene le riforme economiche fatte dalla Cina negli ultimi vent’anni facciano tremare la volontà di autarchia di Pyongyang. Gli alberghi della città sono pieni di grassi imprenditori di Pechino, di turisti di Taiwan, e persino l’egiziana Orascom di Naguib Sawiris è sbarcata anni fa a corteggiare un Paese dove la stragrande maggioranza dei 23 milioni di abitanti non ha ancora un telefonino. Che agli stranieri viene confiscato all’aeroporto, e restituito solo alla partenza.
Negli ultimi tempi hanno installato i semafori agli incroci, perché le vigilesse dall’elegantissima uniforme bianca non riuscivano più a controllare un traffico salito in cinque anni da pochi autobus all’ora a un’automobile al minuto. Da centinaia di persone a piedi, si è arrivati a qualche decina di biciclette all’ora. Ma le autostrade fuori dalla capitale rimangono quelle di sempre, spaziose come piste di atterraggio di aeroporti, vuote come binari morti, usate più da pedoni che da automobili, immagine di un Paese rimasto senza sussidi dopo il crollo del blocco socialista. E tagliato fuori dalla storia.