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 2010  ottobre 14 Giovedì calendario

«IO, PRIGIONIERO POLITICO IN UN’ITALIA CHE FA DELL’ODIO UN’ARMA»


Maurizio Belpietro, com’è una vita da cattivo?
Sta parlando di me?
Mi correggo, da pretoriano del padrone.
Si corregga ancora: da persona che non si è mai schierata con la sinistra che ha conosciuto.
E pensare che era partito col piede quasi giusto, sindacalista alla Uil, federazione metalmeccanici di Brescia.
Sindacalista non è esatto. E fu una breve parentesi.
Trent’anni fa.
Nel 1980, mi occupavo di lotte sindacali a Bresciaoggi, un litigio con il direttore e sei mesi lontano dal giornale. Da settembre a febbraio lavorai per l’ufficio studi della Uilm.
Cioè, nel campo dei buoni, ma non dei buonissimi. Quelli della Uil erano considerati i peggiori tra i buoni.
Allora esisteva la Federazione lavoratori metalmeccanici, il sindacato unitario con Fim e Fiom. Le divisioni c’erano, e profonde, ma restavano sotto traccia. Era l’anno di Enrico Berlinguer cancelli della Fiat e della marcia dei 40 mila. Comunque durò poco.
Perché se ne andò?
Il tempo di capire che non avrei studiato i contratti di lavoro, ma avrei dovuto occuparmi dei comunicati e dei discorsi dei funzionari.
Il giornalista Maurizio Belpietro, tornato a «Brescia-oggi», era detestato già allora?
Non me la passavo meglio di oggi. Ricordo le telefonate nel cuore della notte e le minacce dall’area dell’autonomia con le immancabili promesse di gambizzazione.
Sul muro della piazza principale di Palazzolo, il suo paese, comparve una scritta gigantesca: «Belpietro infame».
Avevo fatto un’inchiesta sul traffico di droga a Brescia in cui pubblicai orari, luoghi e auto usate per i rifornimenti. Curioso, però. A ripensarci è lo stesso insulto che mi muove ora Gianfranco Fini per la questione della casa di famiglia.
All’«Europeo» facemmo le barricate, quando arrivaste Vittorio Feltri e lei.
I colleglli dell’Europeo erano balene spiaggiate. Gente anche brava, vittima della propria presunzione e convinta di appartenere all’aristocrazia del giornalismo. Non si rendevano conto.
Di che?
Che il settimanale, a forza di volere essere sofisticato, aveva un piede nella fossa.
Meglio morti che di destra.
Macché, faceste due mesi di sciopero contro Feltri, poi alzaste bandiera bianca di fronte al pericolo di decurtazione della busta paga e cercaste di convivere con i nuovi barbari.
Michele Serra è convinto di questo: negli anni Settanta era solo la sinistra a costruire nemici. Da un po’ di tempo è stata superata dalla destra. Che va ormai a caccia di bersagli umani e scredita gli avversari.
Stupidaggini. Negli anni Settanta la sinistra inventò un giornalismo che era una specie di caccia all’uomo, in cui gli insulti e i linciaggi personali erano tanti, le notizie poche. Il caso Calabresi ne è stata la testimonianza più evidente e odiosa. In questo, la sinistra è stata e rimane insuperabile. Le nostre inchieste sulle case, da Affittopoli a MonteCarlo, le fanno un baffo.
La voglia di reagire contro chi vi odia dall’alto della propria supponenza vi ha resi odiatori a vostra volta. Usate un linguaggio simile, godete se un vostro avversario viene arrestato e lo scrivete. Forse Serra ha ragione.
Non direi proprio.
Garantisti a senso unico.
Nemmeno per idea.
Questo pare.
Parlano i fatti. Se fosse così, avrei dovuto mettere sulla graticola il presidente del Parco delle Cinque terre perché esponente del Pd e invece l’ho difeso. Stessa cosa avrei dovuto fare con Ottaviano Del Turco o con il sindaco di Pescara. Ho fatto l’opposto. Gli esempi sono tanti. E da sinistra, nessuno. Mai. Certo, difendere il sindaco di Bologna con la prodiana supponenza intatta, e l’amante in nota spese, era dura, e pure l’assessore di Nichi Vendola, diviso tra appalti ed escort.
O forse Serra ha torto. Forse non c’è tutto quest’odio in giro. Magari è dialettica. Una virgola faziosa, però dialettica.
Per me, uno di sinistra resta un signore che non la pensa a modo mio e a cui riconosco onestà intellettuale. Ma la reciprocità a sinistra non esiste.
La sinistra italiana come il nostro Islam interno.
Niente reciprocità. Per molti colleghi e per molti politici io sono un servo, uno che si è venduto l’anima al diavolo ed è disposto a tutto. Del resto, è ciò che alcuni scrivono e sostengono tranquillamente, facendosi vanto del proprio disprezzo. Anzi, esibendolo come un vezzo.
L’insulto e la derisione, dopo tutto, sono ingredienti indispensabili della faziosità. E un buon tasso di faziosità è ineliminabile. Diciamo, poi, che c’è qualche mascalzone in giro e finiamola lì.
No. La faziosità è una cosa, l’odio un’altra. In certe occasioni io vedo solo il secondo. Negli occhi di alcuni non c’è la voglia di ribattermi, ma sì, anche con qualche insulto, sostenendo il contrario del mio. C’è solo il desiderio di annientarmi. È un livore che non si ferma davanti a nulla, neanche di fronte ai bambini.
Cosa c’entrano i bambini?
Quante volte mi è capitato di essere insultato e inseguito per strada da chi ce l’aveva con me. Non è piacevole, ma neppure il punto più basso. L’orrore si raggiunge quando ti urlano «vergogna!» senza fermarsi nemmeno di fronte alle bambine di 8 e 10 anni che tieni per mano. Allora vedi i mostri, persone pronte al linciaggio con in corpo una violenza cieca e assurda. Loro sono i veri orchi.
Le è capitato?
Sì.
Di recente?
Sì.
Più volte?
Si.
Ha spiegato alle sue figlie che cosa è successo l’altro giorno per le scale di casa?
Sì, insieme a mia moglie. Così come mi sforzo di dire loro cosa accade quando qualcuno insulta il loro padre per strada. Non so se siano in grado di comprendere cosa sia la violenza politica. Di sicuro la conoscono.
Mi dispiace.
C’è chi è cresciuto con la cultura della violenza. Non c’è da stupirsi, perciò, che ci siano persone a cui prudono le mani: quando sei convinto di essere il bene, per estirpare il male sei pronto a tutto. Nei casi meno preoccupanti si tratta di parole, se no c’è il manganello oppure peggio.
Un modo di attacco agli avversari che lei stesso, col senno di poi, avrebbe evitato? Un mezzo linciaggio personale che le piacerebbe non avere fatto? Scuse da porgere a qualcuno?
Non ho linciaggi sulla coscienza. Di errori, credo, a dozzine. Mi è dispiaciuto pubblicare un’indiscrezione sui ministri Altero Matteoli e Sandro Bondi circa un loro coinvolgimento con la cricca. Non era vera e mi è costata l’amicizia di persone che conosco da anni. Sono effetti collaterali di un mestiere che a volte, per l’ansia del buco, ti porta a far del male a persone perbene.
Parlavo di scuse agli avversari.
Non ho mai linciato gli avversari, se è questo che intende. Accuso, polemizzo, ironizzo, semplifico. Ma ripeto: non lincio.
Ha scritto su Marco Travaglio, di recente: «Con una furbesca operazione di marketing giornalistico, è riuscito a diventare l’articolo più venduto sul mercato e le sue pubblicazioni ne sono la prova». Non è come dargli della puttana? Del furbastro al servizio del dio denaro? Perché non rionoscere la genuinità del suo rancore e insinuare contro di lui la stessa accusa di venduto che lui usa contro di lei?
Attenzione, io non ho dato della puttana a Travaglio.
Come no?
No. Ho semplicemente scritto che, pur non essendo di sinistra, ha nella sinistra il suo bacino di lettori.
Può capitare, non è uno scandalo.
È impossibile però che Travaglio non se ne accorga e non capisca che chi legge i suoi libri e il suo giornale viene dal mondo dei no global, dei grillini, degli arrabbiati e di quella, insomma, che una
volta si chiamava sinistra extraparlamentare. Allora, delle due l’una: o non è di destra come dice, oppure è uno che, dicendosi di destra, usa la sinistra e le sue tesi. In ogni caso si tratta di un inganno.
Dopo l’agguato nei suoi confronti, la solidarietà è apparsa comunque generale.
Prego?
È apparsa generale...
Vorrei ricordare che tra le righe di non pochi giornali e di non poche dichiarazioni pelosamente solidali si poteva leggere in controluce un «ben gli sta». Qualcuno l’ha anche scritto.
Chi?
Il Fatto si è trovato costretto a chiudere un blog dove si dibatteva l’episodio. La quantità degli applausi si era rivelata troppo imbarazzante anche per loro. Due giorni dopo l’accaduto, di nuovo mentre camminavo con le mie figlie, si è avvicinato un tizio che ha avuto espressioni di lode per il mio mancato assassino.

Bussano alla porta, portano a Belpietro una busta.

Ecco, guardi qui, è arrivata l’ennesima minaccia di morte: questo non si limita a me, promette di eliminare pure la mia stirpe. Un altro matto, diranno? Può darsi. Io non so se sia un matto, oppure un matto di talento capace di mettere in pratica ciò che promette. Sarà affare della polizia.
Forse la solidarietà, apparsa generale, tanto generale poi non era.
Ecco, forse no. Forse, già il fatto che qualcuno abbia fatto circolare il dubbio che l’attentato fosse fasullo palesava uno stato d’animo che aveva poco a che vedere con l’intenzione di abbassare il livello dell’odio. Per mantenerlo alto, fra l’altro, è sufficiente negare che esista.
Come vivrà Belpietro?
Come al solito. L’ultimo episodio è stato più grave, ma ai cosiddetti matti ero abituato. Di recente un tipo, spacciandosi per tecnico, ha cercato di entrare in redazione: voleva gonfiarmi di botte. Anzi, per la precisione: voleva farmi sanguinare. Prima mi era capitato di essere trascinato armi in pugno fuori da un ristorante e di venire scaraventato a forza in macchina dalla mia scorta. Mi sentii più o meno come Totò Riina.
Adesso le hanno rinforzato la scorta?
Sì, così mi sentirò ancora un po’ di più un prigioniero politico.