Toni Capuozzo, Riders n.34 Settembre 2010, 8 ottobre 2010
PAROLE
Vogliamo dire due parole sulla parola? È un tema che mi ha sempre affascinato, in tutti i suoi aspetti. Mi piace l’etimologia, o provare a capire come un suono è andato definendo un concetto, un oggetto, un’idea. Il termine parola viene dal tardissimo latino paraula e, prima ancora, dal tardo latino parabola. E già qui ci sono due osservazioni da fare: la prima è che in sardo campidanese parola si dice paraula e in friulano si dice peraule. La seconda è che quel rinvio alla parabola sembra alludere al fatto che ogni parola racchiude un mondo, una lezione, una morale. Naturalmente mi piace curiosare tra le lingue, intrigato dai falsi amici (quelle parole che assomigliano a un termine italiano ma vogliono dire tutt’altro), dal genere delle parole che cambia con facilità (acqua, una delle parole più femminili del vocabolario, in spagnolo resta tale ma, per un problema di assonanze, viene preceduta da un articolo maschile: el agua) e dalle lingue come spia dell’anima. Qualcuno ha detto che l’anima profonda di un popolo risiede nelle parole che ha inventato per definire qualcosa che ad altri popoli non passava per la testa. E così quella parola è intraducibile (questo vale anche per i dialetti: provate a tradurre senza ricorrere a giri di parole i napoletani ammuina, o cazzimme, che non è una parola volgare, non fatevi ingannare dal suono). E così, ovviamente, mi piacciono gli accenti, che colorano diversamente le stesse parole e le lingue minori: ho sofferto quando ho letto di un’indigena che era rimasta l’unica a parlare una delle tante lingue che scompaiono, in qualche parte del mondo. La usava, ormai, solo per cantare a se stessa delle filastrocche per altri senza senso e non aveva nessuno con cui parlarla, era un codice di
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solitudine. Mi piace la mescolanza delle lingue, trovo inevitabile che molti dei linguaggi tecnici, a cominciare da quello televisivo, utilizzino parole inglesi e sorrido quando sento i francesi chiamare il computer ordinateur. Da ragazzo, grazie a un busto severo sulla scalinata che portava al castello della mia città, sono rimasto colpito dalla figura di Zamenhof e dal suo sogno di creare una lingua universale, almeno quanto mi colpiva l’immagine biblica della Torre di Babele e della confusione di parole tra l’arroganza degli uomini. Da adulto viaggiatore mi sono applicato a imparare sempre qualche parola di cortesia nelle lingue locali e ho visto da vicino quegli ziggurat iracheni che ispirarono l’immagine della Torre di Babele, nei giorni in cui la lingua comune non impediva agli iracheni sunniti e sciiti di farsi la guerra a vicenda. Ma, per restare al nostro italiano, confesso una divertita passione per le cosiddette ultime parole famose, cioè quelle previsioni smentite fragorosamente dai fatti. Tipo quel dirigente della MGM che bollò come infelice l’idea di un topolino protagonista di un cartone: «Che idea orribile, terrorizzerà tutte le donne incinte» disse. Invece Topolino ha divertito generazioni di bisnonne, nonne, madri, figlie e nipoti... Conservo anche un’attenzione alle ultime parole vere e proprie, le frasi che i grandi pronunciano sul letto di morte, una sorta di eredità ai posteri.
In un cimitero della Florida qualcuno ha fatto scolpire sulla propria lapide, come una rivincita sui sopravvissuti, la sua ultima frase: «Ve l’avevo detto che non stavo bene». E non mi sfugge
che la parola è figlia dei tempi e oggi è più secca e avara, stile sms. Forse, rispetto ad altri popoli, siamo sempre stati un po’ sbrigativi: usiamo il termine salamelecchi per dire giri di parole inutili e perditempo, e traduciamo alla lettera quel salam aleikum, pace a tutti, che fa parte del cerimoniale degli approcci in tutto il mondo arabo. Ma, quand’ero bambino, mio padre mi portò
a sentire i comizi di alcuni famosi politici. E siccome erano di parti opposte, io gli chiesi con chi stavamo noi. Mio padre scosse la testa e mi disse che non stavamo con alcuno, che i politici dicono tutti fesserie, ma quei due le dicevano proprio bene, era un piacere sentirli parlare. Questa facondia oratoria oggi è sostituita dalla capacità di cogliere
i tempi televisivi del talk show, e tutti siamo convinti che un buon silenzio sia a volte meglio di parole spese. Per questo, da quando ho inziato ad andare in scena con due amici (lo scrittore Mauro Corona e il cantautore Gigi Maieron), in uno spettacolo improvvisato che si chiama Tre uomini di parola, provo sempre a spiegare con un po’ di imbarazzo che, sì, siamo gente che lavora con le parole, che prova a mantenere la parola data, ma che in definitiva sappiamo che sono i fatti a decidere.