Sandro Veronesi, la Repubblica 8/10/2010, 8 ottobre 2010
VARGAS LLOSA, IL GRANDE SCRIBACCHINO È DIVENTATO PREMIO NOBEL
Quando, nella morsa del traffico del lungotevere, immerso nel raglio asinino dei clacson, ieri sono stato raggiunto dalla notizia che Mario Vargas Llosa aveva vinto il premio Nobel, ho provato una gioia immensa, personale. Un senso di vittoria vera, totale, e mia, paragonabile forse solo alle grandi e rarissime vittorie sportive che fanno epoca: un mondiale di calcio, il tour de France di Pantani. Dice: per forza, è un tuo amico. No, lo zio Marito non l´ho mai conosciuto, non gli ho mai stretto la mano, non l´ho mai nemmeno visto di persona. Ma si dà il caso che, per me, sia stato comunque lo scrittore decisivo, quello che ha dato la spallata fatale. Mi è stato spacciato per la prima volta da quello che all´epoca era solo un mio amico più grande, e che poi sarebbe diventato a sua volta scrittore – e di quelli bravi: Edoardo Albinati.
La dritta fu di leggere La città e i cani, ed è una delle cose per cui dovrò sempre ringraziarlo. Lessi quel libro e fu, per me, una rivelazione. Il libro era di quindici anni prima, ed era stato scritto quando l´autore aveva ventisei anni: io ne avevo diciotto, e il mio amore per la letteratura, fin lì consumato sui classici, si trasferì con violenza sulla narrativa contemporanea. Lessi in sequenza gli altri libri che Vargas Llosa aveva pubblicato: quelli di racconti, I capi e I cuccioli, con il memorabile personaggio di Cazzolino Cuellar e l´altrettanto memorabile tecnica di narrazione in prima e in terza persona plurale alternate; La casa verde, con l´umanità cenciosa e variopinta che stava proprio allora alzando la testa in tutto Sudamerica – il libro è del 1969, esplodeva la Teologia della Liberazione; e soprattutto quello che a oggi rimane per me il suo vero capolavoro, il labirintico, flaubertiano, meraviglioso Conversazione nella cattedrale, con i personaggi indimenticabili di Zavalita e di suo padre, di Aida, di Ambrosio, e il borborigmo della revolucion che s´inceppa in sottofondo, e la zanna del regime che affonda nelle carni, e il turbinare di Lima tutt´intorno, sensuale, inafferrabile. Sempre diciott´anni avevo, ma questo romanzo era di otto anni prima, sapeva ancora di nuovo, ed era la risposta che serviva in quel momento, in Italia, dove la forma-romanzo era detta ormai morta e superata. Non era vero: attraverso quella porta formidabile si aveva accesso a tutto il mondo della narrativa latino-americana, dove la forma-romanzo era più viva e vitale che mai.
Ora, tanto profondo e decisivo fu l´entusiasmo scatenato in me da quel romanzo che non mi limitai a farne la Bibbia su cui giurai intimamente di fare anch´io lo scrittore, ma mi investii della santa missione di portarlo alle genti incredule della mia città, dove erano tutti presi a far quattrini con le pezze. Del resto, che non stessi vendendo fumo lo dimostrò Vargas Llosa stesso con La zia Julia e lo scribacchino, altro romanzo straordinario che fu pubblicato, questa volta, dopo che io avevo cominciato la mia opera pastorale. L´irrefrenabile vitalità che preme da ogni riga di questo romanzo testimoniava che io non stavo ammorbando i miei amici con una "fittonata" come tante, ma che realmente avevo in mano qualcosa di potentissimo e di liberatorio che a noi studentelli di provincia consentiva di saltare di colpo in cima al mondo e guardare tutto dall´alto in basso. Ecco, è proprio questo strepitoso senso di libertà e di potenza che ricordo ancora come la sostanza attiva della nostra dipendenza dai libri di Mario Vargas Llosa; quest´idea che allora si poteva far tutto, maledizione, e che la bellezza era molto più vicina a noi di quanto non si sospettasse – giusto un passo dietro a quella libertà.
Poi ci fu La guerra della fine del mondo, che mi arrischiai a leggere addirittura in spagnolo ("era un hombre alto y tan flaco que parecìa siempre de perfil…"), e Vargas Llosa aveva ancora solo quarantacinque anni e prometteva di farci godere ancora chissà quanto. Invece, con Storia di Mayta, iniziò quello che sembrò un declino inevitabile, ancorché assolutamente decoroso. Poco male, pensammo, perché ormai i muri che doveva sfondare li aveva sfondati, e c´era ancora da apprezzare la grandiosità della letteratura di tutto un continente illuminato dalla sua luce, con autori pazzeschi, da Onetti a Borges, da Carpentier a Lezama Lima, da Asturias ad Arguedas, da Sabato a Soriano, a Paz, a Cabrera Infante – per non parlare, naturalmente, di Garcia Marquez.
Sì, sembrò allora che lo zio Marito avesse chiuso bottega, e ancor più lo sembrò quando, a sorpresa, scese in politica con i conservatori e duellò alle elezioni presidenziali peruviane e perse con un giapponese. E se anche fosse andata a finire così, a conferenze e libri sempre più spenti, la storia e la bibliografia di Mario Vargas Llosa gli sarebbero comunque valsi il premio Nobel. Invece, col nuovo millennio, alla soglia dei settant´anni, il maestro è risorto, sorprendendo anche noi apostoli pratesi: prima la saga dominicana della Festa del Caprone, poi il languido Gaugin del Paradiso è altrove, e, pochi anni fa, la strepitosa niña mala che sembra venire dritta dai suoi – di Mario – gloriosi anni ´70, l´hanno riportato tra i grandissimi della letteratura militante, quella che si fa coi libri nuovi e non con la leggenda conquistata in gioventù. Come se Tomba tornasse a sciare e rivincesse le Olimpiadi.
Per questo ieri sono stato così felice. Per me e per i miei amici che, sono certo, nel loro studio dentistico o professionale, o sull´ambulanza dove prestavano servizio, avranno provato lo stesso immenso piacere che ho provato io, e avranno sorriso pensando che una volta tanto il meglio ha prevalso – quel meglio che loro conoscono da tanto tempo. E avranno pensato di averlo vinto anche loro, questo Nobel, così come l´ho pensato anch´io – perché è chiaro che più di così, né io né loro, un Nobel non possiamo vincerlo.