Pierangelo Sapegno, La Stampa 8/10/2010, 8 ottobre 2010
LE FINTE LACRIME DEL KILLER
Adesso la chiama di nuovo Saretta, la piccola Sarah. Lo zio Michele aveva bisogno di mettersi a posto con la sua coscienza. I primi a sospettare di lui, dell’orrore che può nascondersi nelle nostre anime, non sono stati gli inquirenti, ma le sue figlie. Ed è Sabrina, 22 anni, la cugina di Sarah, a urlarlo a un certo punto, mentre litiga con la mamma, fra le scariche elettriche di una intercettazione qualunque: «Ma se è stato lui a portarla via!...», non l’hai ancora capito? Solo quando gliela fanno sentire - quella voce, quel sospetto, quel grido venuto dal suo sangue -, lui crolla e comincia a confessare in un diluvio di parole e di memorie terrificanti. Il mostro è nudo, ormai. Ma è un mostro senza difese, sepolto sotto il suo senso di colpa, già perduto nella enormità del suo male.
L’ha uccisa, lì, nella cantina che mostrava ai giornalisti senza mai farla vedere, nella tana dell’orco dove veniva a chiamarlo la povera Sarah - «io me la rivedo ancora, che scende giù da me e mi dice dài zio, la tavola è pronta» -, l’ha uccisa strangolandola con un filo di corda, e solo dopo l’ha spogliata, e l’ha violentata, quand’era già morta, e l’ha schiacciata nel baule della macchina, per portarla nella campagna, in un podere sulla strada fra Avetrana e San Pancrazio. Seppellita in una tomba piccola, di 4 o 5 metri, in una cisterna interrata con un piccolo foro ricoperto di foglie e rami, dentro la terra della sua vita. Della loro vita.
Lo zio Michele Misseri, 53 anni, è un contadino che ha raggiunto un certo benessere, che va tutte le mattine a lavorare la terra con il suo trattore, e che vive con la sua famiglia a 500 metri da Sarah, nella villetta con le palme di via Grazia Deledda. Le mamme del paese raccontano che quando dovevano lasciare soli i loro figli li affidavano tutte a zio Michele («una persona dolcissima»). Non gli fanno colpe neanche quando si comporta in maniera un po’ strana, nei primi giorni dopo la scomparsa di Sarah: è l’unico dei parenti che non va mai a trovare la sua cognata Concetta, la mamma disperata. Spiega che vuole soffrire da solo. Racconta che il giorno della scomparsa era a casa, «in cantina», dice, «quando mi ha chiamato mia figlia Sabrina per chiedermi se avevo visto arrivare Sara. Io risposi di no». Gli occhi non sembrano cattivi e hanno qualcosa di strano dentro: è come se implorassero. «Ero in cantina perché il trattore col quale andavo in campagna non partiva. Stavo per prendere l’auto, e alla fine andai assieme a mio cognato a raccogliere i fagiolini».
I carabinieri non sono troppo convinti: strano che non sia uscito proprio quel giorno. Ma è Concetta, la mamma di Sarah, che lo scagiona subito: «Non ha nessuna responsabilità. Lo escludo nella maniera più assoluta». Le indagini puntano il dito su un amico, su una badante romena, quasi lo tralasciano. Solo che alla fine è lui che richiama l’attenzione degli inquirenti su di sé, inventandosi la storia del telefonino ritrovato. «Prima di quel ritrovamento nessuno aveva mai sospettato di lui», rivela Walter Biscotti, l’avvocato della famiglia di Sarah.
Ma adesso l’uomo che appare davanti alle telecamere per spiegare quell’incredibile svolta, sembra un altro. Gli occhi sono bagnati di lacrime, le mani ruvide e gonfie si muovono a disagio cercando sempre il cuore, come se la cosa più importante fosse quella che nasconde ancora, non quella che rivela. Parla con un cappellaccio da spaventapasseri in testa, le braccia nude e spesse, da contadino, una maglietta a righe: «E’ stato proprio un caso. L’abbiamo trovato, io, non volevo che lo trovassi io. Magari la gente dice: ah proprio lo zio lo doveva trovare. Non volevo. Ho detto ai carabinieri di non dirlo a nessuno, però, purtroppo, si è saputo lo stesso». Perché deve dire così se nessuno sospettava di lui? Si commuove subito, e lontano dalle telecamere piange, quasi contraddicendosi: «E’ stata Sarah che m’ha chiamato, che me l’ha fatto trovare». Racconta: «Non pensavo che era di Sarah. Dopo, quando lo guardavo bene, ho capito e mi sono emozionato. Ho capito che era di Sarah». Dice: «Sono tutti segnali che mi manda il cielo. Sento che sarò io a ritrovare Sarah. Troppi segnali ci sono». Una giornalista della tv si insospettisce: in effetti è strano. E lui non si inalbera, è gentilissimo: «E’ stato un caso. Io sento che Sarah non è più qua ad Avetrana. L’hanno portata via, lontano. Dei banditi, dei cattivi, non so». Con un’altra televisione il racconto è più dettagliato: «Mi sono dimenticato il cacciavite e per il cacciavite s’è trovata questa fortuna. Come sono sceso dove abbiamo parcheggiato stamattina, ho visto una cosa, della bruciacchiatura, e m’è venuta una cosa...». Si mette a piangere. «L’ho preso in mano, ho telefonato a mia figlia». Ma lei l’ha riconosciuto subito? «Il cuore me lo diceva» (poco prima aveva detto che non l’aveva riconosciuto). Descrive il cellulare, si commuove di nuovo, strofinandosi le mani sul petto.
Tutto quel che lascia percepire sono segni di contrizione. Ma il dolore è per se stesso, per il peso che si porta dentro, non per Sarah. Di lei dice «era la mia figlioletta piccola, Sarah, era proprio come se fosse mia figlia», ma nella dolcezza delle parole non c’è orrore. Lo zio Michele, in fondo, è l’ultimo figlio becero della nostra società. E’ perfettamente identico al mostro pachistano di Novi che ha lapidato sua moglie: la donna oggetto di vizio e di servitù. Anche se il criminologo Francesco Bruno lo tratteggia come un serial killer cresciuto in un ambiente familiare chiuso all’esterno, «in cui covano situazioni di desideri inconfessabili». Forse, invece, dovremmo cominciare a chiederci quante di queste storie rappresentano la nostra deriva.