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 2010  ottobre 07 Giovedì calendario

NIXON, KISSINGER E L’INTUIZIONE DI NENNI: QUANDO NOI MEDIAMMO SUL DISGELO CON MAO

(Anticipiamo una sintesi del saggio di Sergio Romano, «Italia e Cina: la lunga marcia del riconoscimento», che uscirà sul prossimo numero della rivista «Aspenia», dedicato alla Cina, in edicola tra due settimane)
Nel 1955, sei anni dopo la proclamazione della Repubblica popolare, Pietro Nenni accettò un invito del governo cinese, visitò Pechino ed ebbe colloqui con Mao Zedong e Zhou Enlai. Di quell’incontro è rimasto un «pesce di lunga vita», intagliato nella giada, di cui Mao gli fece dono, e che gli eredi di Nenni tuttora conservano.
Non appena installato alla Farnesina, dopo la formazione del governo Rumor nel dicembre 1968, Nenni voleva che il riconoscimento della Cina comunista fosse il tratto distintivo della sua politica estera. Ma occorreva informare gli americani. L’occasione venne nel gennaio del 1969 quando Richard Nixon, eletto qualche mese prima alla presidenza degli Stati Uniti, fece un viaggio a Roma nel corso di un periplo europeo. Era il peggiore dei momenti possibili. L’Università di Roma era stata occupata dagli studenti che ne uscivano per inscenare cortei e dimostrazioni nel centro della città. I dimostranti a piazza Col onna brandivano cartelli in cui si leggeva «Go home Nixon», «La Nato sarà il nostro Vietnam», «Nixon presidente nemico vattene!». Nelle sue memorie Rumor scrive che «Palazzo Chigi era diventata una improvvisata astanteria per accogliervi e curare i poliziotti e i carabinieri feriti». L’incontro finalmente ebbe luogo e Nenni, mentre Rumor stava per accompagnare Nixon nella Sala rossa di Palazzo Chigi, gli disse rapidamente: «Ti raccomando, digli della Cina; lo deve sapere prima lui».
Sgombrato il campo dalle possibili obiezioni americane, Nenni poté finalmente dare il via all’iniziativa che gli stava a cuore. I negoziati ebbero luogo a Parigi e cominciarono con una colazione all’ambasciata d’Italia. L’ambasciatore cinese era il generale Huang Chen. Aveva partecipato alla Lunga Marcia come comandante di un reggimento del Terzo Corpo d’Armata ed era stato uno dei più autorevoli commissari politici dell’Esercito popolare. Quando varcò la soglia dell’ambasciata vidi un vecchio signore, piccolo, tondo, gioviale e vestito, come tutti i suoi collaboratori, con una giubba militare «carta da zucchero», abbottonata sino al collo. Nelle occasioni in cui venne da noi non mancò mai di stringere la mano di tutti i camerieri, una forma di galateo comunista che i diplomatici sovietici non avevano mai praticato.
Nenni fu ministro degli Esteri sino all’agosto quando Rumor formò un monocolore democristiano e alla Farnesina andò Aldo Moro. Noi nel frattempo stavamo negoziando a Parigi con istruzioni che tenevano conto, evidentemente, delle preoccupazioni che gli americani avevano manifestato a Nenni, durante una visita a Washington, sul futuro della Cina nazionalista.
Quando i cinesi della Repubblica popolare ci chiedevano di riconoscere che Taiwan apparteneva alla Cina comunista, sapevamo che chiedevano in realtà il seggio permanente delle Nazioni Unite: una richiesta sgradita agli americani che Nenni invece considerava legittima. Era del resto ciò che chiedevano anche ai canadesi con cui avevano avviato una trattativa parallela. Il negoziato, in queste condizioni, non poteva fare progressi. Ma nessuno aveva intenzione di romperlo.
Non so come i canadesi abbiano ammazzato il tempo. Noi, a Parigi, riempimmo i vuoti con colazioni e pranzi durante i quali parlavamo di gastronomia comparativa e altri temi politicamente innocui. Finimmo per simpatizzare e per concederci qualche confidenza. Un anziano primo segretario della delegazione cinese ci raccontò di essere stato in una scuola di missionari protestanti. Ci disse anche di avere visto in un cinema di Parigi, qualche giorno prima, un film in cui una donna si innamorava di un prete. Mi parve sinceramente addolorato.
Mentre noi negoziavamo a Parigi, tuttavia, Nixon e Kissinger si apprestavano a fare grosso modo la stessa cosa. Se lo avessimo saputo avremmo capito che la Cina aveva un evidente interesse ad allargare il ventaglio delle sue relazioni diplomatiche. Ma il governo italiano non lo sapeva e decise, per non irritare gli americani, di lasciare ai canadesi il compito di tagliare per primi il nastro d’arrivo. Il 6 novembre, all’ambasciata d’Italia, firmammo un comunicato congiunto in cui i cinesi riaffermavano i loro diritti su Taiwan e noi ci limitavamo a prenderne nota.
Un anno dopo, il 25 ottobre 1971, l’Assemblea generale «restaurava i diritti legittimi della Repubblica popolare di Cina». Alla fine dei conti era Nenni che nella sue conversazioni con gli americani aveva detto la cosa giusta.
Quando gli parlavano del problema di Taiwan, Nenni osservava che non si poteva riconoscere la Cina e negarle il diritto di occupare all’Onu il seggio che le spettava.
Sergio Romano