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 2010  ottobre 07 Giovedì calendario

LA STORIA NON SI SCRIVE CON LA MANO SINISTRA


Sul Foglio di lunedì il direttore Giuliano Ferrara ha dedicato l’edito­riale - dal titolo «Perché la destra è repellente e la sinistra è tanto carina» - a un tema particolarmente interessante. Ossia il diverso peso e la diversa autorevolezza che inevitabilmente (e inspiegabil­mente) sono riservate alle idee e al pensiero di destra rispetto a quello di sinistra. «La destra economica, quella religiosa, quella culturale, quella politica - scrive Ferrara - pagano qualcosa che va al di là del loro stesso profilo, del loro modo di essere, della loro funzione sociale (...). Tutti sanno che le migliori idee dopo il New Deal sono venute dalla destra liberista e libertaria, che si tratti di tasse, libero commercio, promozione dei consumi, analisi sociale, filosofia dell’autonomia individuale,della responsabilità e della li­bertà del cittadino ». E ancora: «Il paradigma culturale di sinistra è banalmente consumista, festivaliero, è premiopoli e party conti­nuo (...) mentre lo scavo aspro e segreto dei migliori scrittori e filo­sofi insofferenti all’omologazione liberal- democratica del mondo ha avuto qualcosa di eroico (...). Eppure, nonostante tutto questo la sinistra si guadagna la pagnotta della simpatia universale, la de­stra in ogni campo soffre di una forma di disprezzo pubblico... ». Su questo tema il Giornale ha chiesto ad alcuni intellettuali «di de­stra » di intervenire. Ieri abbiamo pubblicato un articolo di Marcel­lo Veneziani, oggi interviene lo storico Francesco Perfetti.




Questa storia della esecrazione del­la destra e della cultura che fa rife­rimento alla de­stra o, più in gene­rale, al centrodestra è ricorrente. E, confessiamolo, un po’ noiosa. Non è che non sia vera. Anzi, e so­prattutto in Italia, nell’Italia del se­condo dopoguerra. Ma ciò non toglie che si tratti di un tema che sarebbe bene guardare con suffi­cienza, non curandosene trop­po. Anzi, ridendoci e scherzando­ci. Perché, dopo tutto, il mondo dei moderati-cioè quell’insieme di liberali e conservatori che si ri­trovano nel centro-destra- esiste e si fa sentire, con il voto, a prescin­dere dagli anatemi che gli vengo­no lanciati dalla sinistra. E con le manifestazioni di pensiero - in una parola con la cultura - che quel mondo riesce a esprimere e, anche, a far veicolare. Se è vero, a esempio, che il vasto mare del­l’editoria è pattugliato dalle pe­santi corazzate varate nei cantie­ri del progressismo- da Feltrinelli a Einaudi, da Laterza a Il Mulino - è anche vero che esso è pure solcato da agili flottiglie di ardimentosi pionieri che non amano sottostare a imposizioni. E che si san­no far valere. Per tutti, ci­to un piccolo e anticon­formista editore di pro­vincia, liberilibri, che è stato (ed è tuttora) capa­ce di mettere insieme, con pazienza e coraggio, un ca­talogo che è un micidiale ar­mamentario della cultura au­tenticamente liberale e liberista, ma anche conservatrice.
Certo - si potrebbe osservare ­si tratta di una situazione elitaria perché in effetti, a livello più am­pio, taluni temi e taluni autori in qualche modo riferibili all’univer­so della destra (intesa nell’acce­zione più ampia) culturale e poli­tica vengono considerati tabù. L’egemonia culturale della sini­stra nel secondo dopoguerra- un dato di fatto, per quanto riguarda l’Italia, difficilmente smentibile ­implica questa sorta di conformi­smo liquidatorio, che trova mo­do di esprimersi nei «salotti lette­rari » radical chic tenuti in vita, ani­mati e frequentati dai cosiddetti «intellettuali di sinistra». Chi sia­no questi ultimi è facile dire. Un liberale inossidabile come Sergio Ricossa ne tracciò, nel delizioso saggio Straborghese , un ritratto a tutto tondo, che metteva subito il lettore nelle condizioni per rico­noscerli a prima vista. E, magari, per evitarli. Egli fece notare che gli «intellettuali di sinistra» si pro­clamano tali ai quattro venti, con­siderano ogni altro intellettuale un essere inferiore e gli negano addirittura la qualifica di intellet­tuale. Inoltre sono abituati a pre­miarsi a vicenda, ad autoincen­sarsi, persino a scontrarsi in qual­che falso duello culturale purché questo serva al loro narcisismo. E, dulcis in fundo , esprimono il lo­ro progressi­smo in un proclamato amore nei con­fronti del popolo, di un popolo in­­teso, però, come astrazione, da tu­telare, irreggimentare, educare perché possa profondersi, poi, in elogi e manifestazioni di obbe­dienza nei loro confronti.
Questa«mala genia»dell’intel­lettualità di sinistra ha dominato la cultura italiana del secondo do­poguerra. E ancora si fa sentire. I motivi sono storici.Agli albori del­l’Italia repubblicana- dopo il crol­lo del fascismo, dopo la sanguino­sa guerra civile, dopo il lacerante referendum istituzionale- la clas­se politica e la cosiddetta «alta cul­tura » si trovarono davanti a un compito immane: ricostruire il tessuto morale e civile di un Pae­s­e sbandato e rimasto senza iden­tità.
La cultura liberale italiana del dopoguerra, espressa soprat­tutto da Croce, non ebbe quella fortuna diffusa che pure, per ten­sione morale e rigore speculati­vo, avrebbe meritato. Anzi, fece registrare un rapido deperimen­to quanto a capacità di incidenza sulle vicende nazionali. Questa crisi della cultura politica liberale fu denunciata da due grandi stori­ci liberali: Rosario Romeo, che ne sottolineò il carattere di «crisi di scoraggiamento» e Nicola Mat­teucci, che osservò come il libera­lismo, in Italia e in Europa, avesse perso fiducia in se stesso e, di fron­te a un marxismo imbaldanzito dal mito dell’Unione Sovietica vit­toriosa, si fosse messo alla ricerca di un suo possibile «inveramen­to » nel socialismo.
In questa situazione maturò l’incontro frala cultura azionista, quella della linea che va da Piero Gobetti a Norberto Bobbio, e la cultura marxista nella versione di Antonio Gramsci tesa alla con­quista della società civile prima della società politica. Nacque co­sì il gramsci-azionista presto as­surto a «pensiero unico»dell’uni­verso culturale italiano. Un pen­siero, nella sostanza e al di là delle apparenze, sottilmente «totalita­rio » perché fondato sulla catego­ria del «moralismo politico»(il be­ne da una parte e il male dall’al­tra) e intriso di pulsioni giacobi­ne.
Un pensiero, a dir poco, illibe­rale. E che è all’origine della de­monizzazione della destra e del centro-destra, sia dal punto di vi­sta politico, sia dal punto di vista culturale. Per gli «intellettuali di sinistra» e i salottieri à la page pri­gionieri di questa visione ideolo­gica, non si potevano nemmeno sfiorare certi argomenti. Se qual­cuno, a esempio, si azzardava a toccare il tema del fascismo al di fuori dei canoni della vulgata sto­riografica veniva non solo con­dannato moralmente, ma anche idealmente espulso dalla comu­nità degli studiosi «seri». È quan­to accadde, per esempio, a Renzo De Felice quando si accinse a scri­vere la sua biografia di Mussolini e ad analizzare il fenomeno del consenso.
La pruderie e l’arroganza di questo gramsci-azionismo, dive­nuto sotto diverse declinazioni il sale e il pepe dell’egemonia cultu­rale di sinistra, hanno ostacolato, e cercano ancora di ostacolare, le manifestazioni libere di pensie­ro. Ma - riconosciamolo - molte cose sono cambiate. Oggi, per esempio, dopo gli studi di Rosa­rio Romeo, chi può dare più credi­to all’interpretazione gramscia­na del Risorgimento? Chi, dopo gli studi di François Furet sulla ri­voluzione francese e sull’illusio­ne del comunismo, può più cre­dere al valore palingenetico della rivoluzione? Chi, dopo gli studi di Renzo De Felice, può ancora so­stenere l’immagine del fascismo come sola violenza e anticultura? E,ancora,chi,dopo la lezione me­todologica di Karl Popper, può ancora onestamente credere a leggi di tipo deterministico? Colo­ro che ancora ci credono sono, or­mai, relitti del passato, che tendo­no ad autoconsolarsi lanciando anatemi contro la destra e il cen­tro- destra politici e culturali. E che, soprattutto, temono per le lo­ro rendite di posizione. Ma non è il caso di dedicar loro troppa at­tenzione. La cultura, quella vera, non è certo di sinistra. Ed è que­sto il motivo per cui anche i di­scorsi e le lamentazioni sulla ese­crazione della destra stanno ve­nendo a noia.