Elena Molinari, Avvenire 6/10/2010, 6 ottobre 2010
LOBBY DEL GREGGIO
Due settimane dopo la chiusura della falla di petrolio nel Golfo del Messico, milioni di litri di petrolio rimangono nelle foreste di mangrovie nella Louisiana, decine di proposte di legge ’antipetrolieri’ restano in discussione al Congresso o nei Parlamenti statali americani. E milioni di dollari continuano ad affluire a Washington per proteggere gli interessi dell’industria del greggio dagli effetti indesiderati del disastro e delle norme in approvazione.
Nonostante i mea culpa della British Petroleum e le promesse, sue e di altri giganti del petrolio (dalla Exxon alla Shell alla Chevron), di diventare paladini dell’ambiente e di fare affari con trasparenza, infatti, la multinazionale britannica e le sue ’consorelle’ tengono al soldo schiere di potenti lobbisti nella capitale americana, e non risparmiano tattiche per assicurarsi che le scelte politiche del governo e del Congresso non siano ’troppo’ verdi o troppo orientate ai consumatori. Lo scopo finale è l’opposto di quello che la Bp ha assicurato al pubblico: rimediare fino all’ultimo centesimo alle conseguenze delle proprie azioni.
L’inserimento dei lobbisti negli ingranaggi della politica di Washington ha già fatto in modo che la proposta di Barack Obama di creare una nuova tassa per i petrolieri (modesta: un centesimo al barile) per alimentare un fondo che copra eventuali danni ambientali sia ancora nel limbo.
Quest’anno inoltre sono già defunte in Senato due misure energetiche: la ’cap and trade’, che fissava un tetto alle emissioni nocive producibili negli Usa, e un disegno di legge per la protezione dell’ambiente proposto dai democratici in Senato a maggio. Per mantenere lo status quo l’industria del petrolio ha battuto ogni record di spesa: l’anno scorso, 175 milioni di dollari nell’azione di convincimento dei politici americani e quasi altrettanti (finora) nel 2010. Quando nel 2007 ne spesero 83 milioni, sembrava avessero raggiunto una vetta (o il fondo, a sentire le associazioni ambientaliste) impossibile da superare. Nel frattempo, i gruppi che propongono l’uso di fonti di energia rinnovabili sono fermi a circa 20 milioni l’anno per l’attività di lobby.
Le cascate di milioni dai giganti del greggio si trasformano in messaggi pubblicitari – che presentano ogni iniziativa a loro sfavore come un’intrusione dello Stato nella libera iniziativa o un ostacolo alla creazione di posti di lavoro – e in stipendi per centinaia di persone che offrono compromessi o favori per influenzare i parlamentari americani.
Come? La semplice dimensione dell’industria del petrolio (sei delle dieci società più grandi del mondo sono petrolifere) fa sì che vi sia almeno una raffineria o un impianto chimico nel distretto di ogni deputato o senatore americano e che la società controlli un’enorme quantità di lavoro e di contributi fiscali. «I modi per condizionare i legislatori sono infiniti », spiega Larry Sabato, direttore del centro per la politica dell’università della Virginia. Un’indagine comparsa di recente dimostra ulteriormente il rapporto quasi incestuoso fra politica americana e industria del petrolio. Dei 600 lobbisti delle società del greggio e del gas attivi oggi a Washington, 430 erano in precedenza funzionari di governo, alcuni ad altissimo livello, o membri del Congresso. Persone con le conoscenze necessarie per muovere le leve del potere a vantaggio dei loro nuovi datori di lavoro, bloccando sul nascere le iniziative o gli studi potenzialmente dannosi per l’industria dell’energia.
E quando la pressione indiretta sul Congresso non basta, ’big oil’ sa come prendere in mano la situazione. Ad agosto, ad esempio, l’associazione dei petrolieri, l’American petroleum institute (Api), ha invitato tutte le aziende della categoria a far partecipare i propri dipendenti (in orario di lavoro) a ’manifestazioni spontanee’ orchestrate dalla stessa Api in 20 Stati per protestare contro «il disegno di legge sul clima e gli aumenti di tasse dell’Amministrazione Obama per il nostro settore», secondo la lettera dell’Api caduta nelle mani di Greenpeace.
«La Api fornirà risorse e l’aiuto di una società di pianificazione di eventi e pagherà il trasporto per i dipendenti», si legge ancora.
Sempre la scorsa estate, inoltre, nel bel mezzo della crisi ecologica nel Golfo del Messico, quando gli effetti della mole di petrolio non erano del tutto noti, la Bp si mise ad offrire contratti ai maggiori scienziati e ricercatori di biologia marina e ambientale negli Usa affinché aiutassero la società a preparare la propria difesa nei tribunali di New Orleans, dove stavano affluendo le richieste di danni di pescatori e operatori turistici. La condizione del contratto, che proponeva compensi da 250 dollari l’ora, era che gli scienziati non rendessero mai noti i risultati delle loro ricerche sul petrolio nel Golfo. La Bp si rivolse, fra l’altro, all’intero dipartimento di Scienze marine dell’Università dell’Alabama, che rifiutò.
Poi ci sono i soldi usati per influenzare la politica estera americana. Qui, per ora, con meno successo, almeno negli Usa, nonostante i tentativi non siano mancati. Se in Gran Bretagna infatti la Bp è stata accusata di aver ottenuto la liberazione del terrorista libico responsabile della tragedia di Lockerbie per assicurarsi concessioni di trivellazioni in Libia, negli Stati Uniti le lobby del petrolio hanno preso di mira le politiche contro l’Iran. Documenti raccolti dal think tank progressista Center for American progress hanno rivelato lettere contenenti promesse di favori fatte dai lobbisti del petrolio ai parlamentari americani affinché non approvassero le sanzioni contro Teheran. Invano. La legge è passata a luglio, e impone multe alle aziende che «contribuiscono alla capacità dell’Iran di sviluppare la propria industria del petrolio», mettendo a rischio affari per miliardi delle multinazionali del greggio.
La ExxonMobil, ad esempio, fino al 2006 ha venduto all’Iran additivi per i combustibili. La ConocoPhillips genera miliardi di profitti ogni anno vendendo benzina all’Iran tramite la russa Lukoil, della quale detiene un pacchetto azionario. La Halliburton fornisce servizi di trivellazione all’Iran tramite le sue consociate estere.
Il disastro della marea nera ha però dimostrato che maggiore attenzione da parte del pubblico e della stampa riesce a portare a galla gli aspetti più estremi e sospetti dell’attività di lobby dei petrolieri (del tutto legale negli Stati Uniti, se fatta alla luce del sole). E magari a imporre a ’big oil’ qualche cambiamento di rotta. Com’è successo alla Exxon che, messa sotto pressione da gruppi ambientalisti e dai media, ha ammesso di aver finanziato gruppi di studio (come il Competitive Enterprise Institute) impegnati a negare i cambiamenti climatici provocati dall’azione umana e ha promesso di eliminare quei pagamenti.