Attilio Barbieri, Libero 6/10/2010, 6 ottobre 2010
INFONDATO L’ALLARME DISCARICHE NON SI STANNO ESAURENDO TUTTE
Il ciclo dei rifiuti è al collasso. Rischiamo di essere sommersi dalla spazzatura perché le nostre discariche hanno una vita residua molto breve, in media di due anni. Un ritornello che ci siamo sentiti ripetere spesso. Le immagini che provengono da Napoli e dintorni, con le discariche quasi bloccate da comitati spontanei che impediscono ai camion di sversare i sacchi nei luoghi di stoccaggio confermano questa sensazione. Montagne di rifiuti maleodoranti ai bordi delle strade e sui marciapiedi, a due passi (nel senso letterale del termine) dalle vetrine dei negozi.
Succederà lo stesso anche da noi. Fra poco tempo, due o tre anni al massimo, sentenziano i soloni dell’ecologia. Ma è proprio così? Siamo sicuri che ci aspetti un futuro costellato da sacchi neri in cerca di una fissa dimora?
Abbiamo chiesto qua e là alle società che gestiscono i “cantieri”, così si definiscono nel gergo le discariche. Ottenendo parecchie risposte. Abbiamo acquisito anche il documento ufficiale della Regione Piemonte in cui si fa il bilancio degli impianti per i rifiuti urbani. Alla fine abbiamo raccolto indicazioni precise sull’età residua di una quindicina di siti. Nulla di scientifico, per carità, il nostro non è un censimento né ha l’ambizione di apparire tale. Resta il fatto che l’età residua che abbiano rilevato è ben al di là dei due anni di cui si parla tanto. Ventiquattro mesi è il tempo minimo restante degli impianti più prossimi alla “pensione”. Per gli altri si arriva perfino al 2020.
Come spiegare, allora gli allarmi che periodicamente vengono lanciati sul ciclo dei rifiuti? «Un po’ di allarmismo c’è sempre stato e se può servire a prendere coscienza di quanto siano delicate le questioni in gioco può anche essere positivo», spiega a Libero Giovanni Battista Pizzimbone, amministratore delegato del gruppo Biancamano, di gran lunga il maggiore operatore privato italiano del settore. «Da noi come in altri comparti», aggiunge, «si fa spesso la politica del carciofo. Se si annuncia alla popolazione che la discarica in fase di apertura è destinata a durare dieci anni, si rischia di provocare una sollevazione popolare. Così si parte dicendo che l’impianto rimarrà aperto due anni. Poi si chiede un ampliamento per altri due anni cui se ne aggiungono altri due. La politica dei piccoli passi in questi casi permette di evitare gli scontri frontali. Così arriva l’autorizzazione per un primo lotto della durata di due anni, due anni e mezzo, poi giunge il via libera per un secondo e per un ter-
zo lotto. Quando un ambiente già ospita un impianto per lo smaltimento dei rifiuti gli ampliamenti successivi sono meno problematici».
C’è di più: saremo condannati a convivere con le discariche. «Anche perché gli inceneritori non rappresentano la soluzione ultima, la più evoluta allo smaltimento dei rifiuti né la più sicura», conferma Pizzimbone, «se è vero
che le discariche non sono e non saranno mai l’unica soluzione, l’obiettivo è uno: riciclare. Più rifiuti si riescono a separare alla fonte e meno scarti si mandano a smaltimento. Un termovaloriz-
zatore o un cogeneratore di energia elettrica, producono comunque un 30-35% di residuo della combustione che prende la strada della discarica. E stiamo parlando di materiale altamente tossico, con un’elevata concentrazione di metalli pesanti. Anche qualora lo scarto si riducesse al 20% con le nuove tecnologie, anziché interrare con tutte le cautele dei materiali comuni, siamo costretti a smaltire un residuo potenzialmente pericoloso».
Dunque non solo non c’è un’emergenza discariche all’orizzonte (se si escludono Napoli e dintorni, naturalmente), ma non è neppure detto che il contenuto dei sacchi neri debba finire solo e soltanto negli inceneritori... «Già, basta guardare quel che accade nei Paesi più evoluti, Germania e Stati Uniti», conferma ancora Pizzimbone, «in particolare negli Usa c’è un’inversione di tendenza: abbandonano gli impianti di termovalorizzazione per tornare alle discariche . Se si riesce a massimizzare la raccolta differenziata e il recupero alla fonte, presso le case di tutti noi, i rifiuti indifferenziati che vanno allo smaltimento finale si riducono a ben poco. Così i termovalorizzatori diventano antieconomici perché hanno bisogno di grandi masse. Se ci sforziamo di rispettare la direttiva comunitaria in base alla quel il 65% dei rifiuti deve essere differenziato e avviato al recupero, quel che rimane cessa di essere un problema e può essere facilmente stoccato. Le discariche se realizzate e gestite bene sono la soluzione più economica».