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 2010  ottobre 05 Martedì calendario

«LACRIME SORRISI E IRONIA I MIEI VENTI ANNI A KABUL»

Il mio mestiere è fare braccia e gambe, lavoro per il Comitato Internazionale della Croce Rossa, sono fisioterapista. E altro, quando necessario.

Il Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr) arrivò in Afghanistan nel 1987, dopo una lunga attesa. Dal giorno dell’invasione sovietica nel dicembre del 1979, i russi e il partito comunista afgano gli avevano negato l’ingresso, obbligandolo a installarsi in Pakistan, a Peshawar e a Quetta, città di confine. Nove anni dopo l’invasione, persi migliaia di soldati e mezzi, ai russi non restò che abbandonare. (...) Lasciarono al potere - o a quello che ne restava - il presidente Najibullah, comunista. (...) Una nuova politica venne annunciata. La chiamarono "riconciliazione nazionale" (...) Grazie a questa il Cicr venne ammesso a Kabul. Tre le sue prime attività: allestire un ospedale, aprire un centro protesi, visitarei detenuti.

Io giunsi a Kabul nel 1990.A quel tempo Munès era un giovane mujahiddin, Abdul Jalal uno studente ricercato dalla polizia politica, Mahmúd ancora faceva il contadino. Najmuddin aveva già perso le gambe.E poi Linà, Jawad in fascee Gulalai alla ricerca del marito scomparso. Con il vassoio della colazione l’hostess mi toccò la spalla, svegliandomi. «No grazie» dissi. «Perché non vuole mangiare?», chiese.

Feci di no col capo, cercando di sorridere. (...) Mi risvegliò più tardi indicando fuori: «Kabul». Non si mosse finché non guardai dal finestrino. Una distesa di abitazioni color polvere interrotta dal luccichio dei tetti di lamiera. «Kabul» ripeté ad alta voce, sicura non avessi capito. Aveva indovinato che dell’Afghanistan non sapevo praticamente nulla. Il volo Ariana Delhi-Kabul atterrò poco prima di mezzogiorno. A tutto pensavo tranne che l’Afghanistan sarebbe diventato la mia casa.

Venni assegnato all’ospedale per feriti di guerra. Non ne avevo mai visto uno. Impossibile scordare il giorno in cui mi trovai per la prima volta tra centinaia di vittime di combattimenti e bombe.

Ricordo la corsia più grande, la E, nel settore maschile. Era sera molto tardi, la porta cigolò bloccandosi spalancata. Entrai tra i letti sistemati su sei file. Alla fioca luce, il soffitto, sostenuto da sottili colonne, appariva basso, opprimente. C’era odore di corpi e di disinfettante. Respiri regolari, lamentie russare si univano in un concerto stonato. Il mancato rialzo delle coperte all’altezza del piede non lasciava dubbi su quanto era successo alla maggior parte dei pazienti. Mine anti-uomo. Nei letti vicino all’entrata erano tutti giovanissimi. Uno aveva una benda sull’occhio destro e una mano fasciata, un altro si muoveva in continuazione, dolorante, un terzo parlava da solo, o forse pregava. Mi appoggiai a un letto. Al lamento del paziente ritrassi la mano. Quelli ancora svegli salutarono. Uno, sorridendo, rivelò gli incisivi mancanti. Il giorno dopo quei pazienti sarebbero stati miei, pensai.

Il mio compito era preciso, fisioterapia in ospedale, arti artificiali, più tardi, al centro ortopedico. Inadeguato fra medici e infermieri che si muovevano sicuri, ebbi subito la certezza di essere arrivato nel posto giusto - se mai un posto del genere possa chiamarsi così - un posto d’azione dove sentirsi utili. I feriti arrivavano spesso a decine, assieme ai familiari in lacrime o urlanti. Le donne si strappavano i capelli, gli uomini gettavano il copricapo a terra, maledicendo il nemico, pieni d’odio e di sgomento. Per me un battesimo del fuoco che contribuìa legarmia quella gente impulsiva e saggia, generosa e crudele, violenta e amorevole. Di alcuni afgani conosciuti a quel tempo sono amico ancora oggi. Mi colpirono molto il rispetto e la cortesia riservatami perché straniero e ospite. Ricordo un giovane mujahiddin con entrambe le gambe rotte, immobilizzato in trazione. Quando mi avvicinai al suo letto per la fisioterapia si affrettò a spolverare la sedia su cui mi sarei seduto. Si sporse tanto da perdere l’equilibrio, restando praticamente appeso a corde e pesi. «Mister, la sedia era sporca», mi spiegò quando lo rimisero a posto. (...) Un collega mi presentò Abdul Latif, la persona giusta per me, «parla 10 lingue, compreso urdu e sanscrito». Al primo incontro con lui parlai del tempo. Faceva molto caldo e non pioveva da giorni e giorni. Mi spiegò chea Kabul le stagioni erano ben definite. Neve e freddo in inverno, pioggia in primavera e tardo autunno, secco e caldo l’estate. Niente pioggia prima di novembre, assicurò. Quella stessa notte invece un violentissimo acquazzone ridusse la città un pantano, portando refrigerio. Gli chiesi delle sue origini, a qualche etnia appartenesse. Ricordo la risposta: «Sono natoa Jalalabad, ma vivo a Kabul da tanti anni. Siamo pashtun» . Decisamente conciso.

Gli domandai se volesse sapere di me. Torse il naso appena gli dissi che ero fisioterapista. «Massaggi?», chiese. Spiegai che la fisioterapia non era solo quello, senza convincerlo. «Prima di diventare fisioterapista ho studiato legge dissi sperando di fare migliore figura- Dovrei essere avvocato ora.

O giudice». «Perché non lo siete? Quelli sì sono mestieri», mi raggelò. Prima che potessi rispondere, lo sguardo gli si animò, furbo.

«Un fisioterapista guadagna più di un giudice da voi?». Per fortuna entrò Gulalai, la cuoca, con il tè e parlammo d’altro.