Alessandra Coppola, Corriere della Sera 05/10/2010, 5 ottobre 2010
LO SCONTRO DI CIVILTA’ IN CASA E LE DONNE IN PRIMA LINEA —
Lo scontro di civiltà in casa Ibrahim scoppiò quando Rania un giorno di fine maggio annunciò che avrebbe sposato un italiano, non musulmano. «Vidi mia madre prendersi istericamente a schiaffi e cercare di strapparsi i vestiti». Un biglietto di sola andata per Il Cairo, il passaporto sequestrato, l’ordine di dimenticare Marco. «Eppure i miei genitori erano stati, fino ad allora, abbastanza aperti, mi avevano cresciuto come una qualunque ragazza italiana», come del resto lei si sentiva, arrivata a Milano che aveva due anni.
La storia ha un lieto fine, Rania e Marco si son sposati, hanno tre figli. Lei fa la giornalista freelance ed è collaboratrice di Yalla Italia, la rivista delle seconde generazioni (allegata a Vita). Di «rivoluzioni» come le sue ne ha viste altre, tra amiche, parenti e conoscenti. «Le figlie di immigrati hanno spesso più coraggio dei fratelli — riflette —, sono più agguerrite perché devono dimostrare qualcosa in più: ai maschi è tutto concesso, possono sposare chi vogliono (l’Islam lo permette), possono uscire e tornare quando gli pare. Molti genitori, invece, si vergognano delle figlie "spensierate". Cominciano a mettere paletti e tutto diventa haram, peccato». Nascono così i conflitti, e quando va bene sono spesso le donne ad aver fatto da apripista e a essersi tirate dietro tutti gli altri. Quando va molto male, son botte. Anche se i casi di Hina, Sanaa e adesso Nosheen sono estremi e isolati.
«La componente femminile vive criticità maggiori, ma è anche una componente di trasformazione più rapida», spiega Stefano Allievi, sociologo dell’Università di Padova, e s per t o di i mmigrazione e Islam. Non succede solo tra le figlie. «C’è questo strano paradosso per cui le donne immigrate sono meno presenti nel mercato del lavoro, sono considerate al traino, meno attive, e invece è spesso il contrario, anche nella prima generazione. L’apparente chiusura è uno stereotipo: la componente femminile è trasformativa». Secondo luogo comune da sfatare: lo scontro di civiltà non riguarda esclusivamente la comunità islamica. «Casi analoghi a quelli di Modena, di matrimoni imposti, in Gran Bretagna si vedono tra indù e sikh, per esempio. Dipende più dalla cultura che dalla religione».
È anche l’esperienza della dottoressa Elena Calabrò, psicologa e psicoterapeuta che assiste le vittime di violenza domestica alla Clinica Mangiagalli di Milano: «La situazione cambia a seconda della cultura di appartenenza», ragiona, e i problemi sorgono «se c’è un gap molto forte» tra la tradizione e il contesto di arrivo. A farne le spese sono soprattutto gli adolescenti, sdoppiati tra la casa e il mondo esterno, dove tra scuola, attività sportive, bar e sale giochi sperimentano stili di vita diversi. Le cifre sono solo orientative, ogni caso è a sé e le seconde generazioni mescolano passaporti italiani e non. Ma si può scrivere (stime Ismu) che i minorenni stranieri sono poco più di un milione e che i giovani tra i 18 e i 25 anni si possono calcolare in 650 mila (su 5,2 milioni totali, irregolari compresi).
Di ragazzine che escono vestite come vuole papà e poi si cambiano in ascensore per assomigliare alle altre coetanee suor Claudia Biondi della Caritas Ambrosiana ne ha viste a decine. «Per le figlie femmine c’è sempre una maggiore attenzione e protezione soprattutto da parte di padri e fratelli, protezione che sconfina col possesso». E porta spesso alla rottura. Le madri mediano? «Non sempre. Nel caso di un’adolescente scappata di casa, per esempio, abbiamo fatto un incontro con un gruppo di donne: si sono divise». Alcune legate alle origini, altre alleate delle figlie.
Ouejdane Mejri, giovane presidente dell’associazione Pontes dei tunisini in Italia, per esperienza mette tra le ragioni della mancata emancipazione di una parte delle donne migranti anche «la dipendenza economica dal marito. E il permesso di soggiorno: molte sono arrivate in Italia con i ricongiungimenti. Separarsi significa dover tornare nel Paese di origine».
Nella comunità pakistana di Desio (Monza-Brianza) prima che di rotture e rivoluzioni bisogna affrontare il nodo del dialogo. A farsene carico sono un padre e una figlia, Jawaira Ashras, 21 anni, iscritta al secondo anno di Comunicazione interculturale all’Università. Dal caso di Hina in poi hanno cominciato a organizzare incontri genitori/figli: «Ci siamo sentiti chiamati in causa — spiega Jawaira — Nella nostra tradizione bisogna rispettare i genitori, stare zitti, non parlare. L’obiettivo mio e di mio padre è rompere questa barriera. Senza essere maleducati». Piccoli passi. Jawaira porta il velo, non esce la sera e (per ora) promette: «Sposerò un musulmano».
Alessandra Coppola