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 2010  settembre 05 Domenica calendario

«IN ITALIA IL FIGLIO IN VITRO RESTA UN’ODISSEA»


Come le amiche di «Sex in the city» sono in quattro e hanno tra i 36 e i 41 anni. Conducono vite simili, hanno lavori diversi e abitano nella stessa città. Solo che stanno in Italia e anziché andare per negozi, negli ultimi mesi, frequentano i centri di infertilità.
Tra pubblici e privati ne hanno girati parecchi e non solo perché, biologicamente parlando, faticano a concepire un figlio, ma pure perché le liste per la fecondazione in vitro sono lunghe. E così, con gli esami del sangue e le ecografie in mano cercano tra le strutture italiane le più affidabili e quelle in cui l’attesa è minima. «Nel nostro Paese - si sfoga per tutte Monica M., 36 anni, commercialista - ti assillano fin da piccola "attenzione che basta un rapporto per restare incinta" ma nessuno ti avverte che aspettare la laurea, il master, il lavoro, può avere conseguenze ben più gravi: la sterilità». In Italia le cliniche contro cui combatterla sono circa 349, più della metà sono private. Nonostante abbia difficoltà a concepire una coppia su sette, - i dati sono dell’Eshre, la società europea di riproduzione ed embriologia - con la fecondazione assistita nascono 1,2 bambini ogni 100. In Danimarca 8, in Francia 1,8, in Belgio 4: «Peggio di noi stanno il Montenegro e il Portogallo - dice Luca Gianaroli presidente dell’Eshre - ma non c’è da stupirsi, l’Italia, con la legge 40 seppur rimodulata dalla Corte Costituzionale, è il Paese che regola la fecondazione assistita con la normativa più restrittiva». Peggio di noi c’è il Costa Rica che la vieta del tutto. Per questo molti italiani in cerca di bebè sono diventati «turisti procreativi» e circa diecimila, lo scorso anno, si sono rivolti a cliniche estere.
Una specie di non-senso se si pensa che nell’ambito della fecondazione assistita il nostro paese è stato tra i pionieri nella ricerca. I «papà» dei bimbi italiani concepiti in provetta, arrivati poco dopo la piccola Louise Brown, sono Piergiorgio Crosignani a Milano, Vincenzo Abate a Napoli, Ettore Cittadini a Palermo, e Carlo Flamigni: «Al Nobel Edwards dobbiamo gratitudine per le intuizioni brillanti di ordine biologico, genetico ed etico». È stata l’équipe di Abate a far nascere, nel 1983, il primo «figlio assistito». Anche in questo caso, come in Inghilterra, un fiocco rossa, Alessandra Abbisogno, che oggi ha 26 anni e del Nobel parla così: «Quell’uomo mi ha donato la vita. Ha saputo risolvere gli ostacoli meccanici che impediscono il concepimento».
Proprio come meccanico è il problema di Monica M. che è uscita dal «centro d’infertilità» dell’ospedale Mangiagalli, a Milano, con una diagnosi non preoccupante, ma che non le dà pace: «ovaie pigre». Nessuna patologia in particolare, se non una condizione legata all’età. Per avere un bambino ha bisogno di una stimolazione ormonale. «È assurdo - dice Monica Soldano, presidente dell’associazione “Madre provetta” - perché la situazione è già di per sé dolorosa eppure esiste ancora una parte della società, e della politica, che tende a farti sentire in colpa se non ti arrendi all’idea di non avere un bambino». E poi aggiunge: «La sentenza 151 del 2009 della corte Costituzionale ha restituito al medico la valutazione della salute della donna. Solo lui può decidere quanti e quali ovuli impiantare. E’ un passo avanti, ma questa legge va ancora migliorata».