Marco Zatterin, La Stampa 5/10/2010, 5 ottobre 2010
GUERRA DELL’ACCAPPATOIO. SCONTRO SUGLI AIUTI AL PAKISTAN
Giovedì scorso il grande capo della direzione Industria della Commissione Ue (Heinz Zourek) ha scritto al grande capo del Commercio (David O’Sullivan) per dire che qualcosa non gli tornava nel modo in cui si stavano eliminando per ragioni umanitarie alcuni dazi sull’export del Pakistan. Studiata la lista dei prodotti stilata dall’irlandese, l’alto funzionario austriaco si era persuaso che puntare in 79 casi su 81 alla liberalizzazione del tessile apparisse «inappropriato e non equilibrato». Nel complesso, aggiungeva, «l’invito dei governi a tenere conto delle imprese europee non è stato rispettato».
La lettera ha gettato benzina su quella che a Bruxelles qualcuno chiama «guerra dell’accappatoio». Il negoziato è in corso, l’esito è aperto. A tre giorni dalla decisione finale della Commissione, dall’elenco di O’Sullivan risultano essere scomparse cinque linee importanti per il tessile, ad esempio gli asciugamani da bagno e i tessuti da cucina, cosa che farà sorridere italiani, spagnoli e portoghesi. Perché il Pakistan è secondo fra gli stranieri sul mercato Ue, dove vende spugne da toilette che costano la metà delle nostre (98 miliardi l’export 2009). Se non ci fossero più dazi, l’effetto per le aziende potrebbero essere gravi.
La decisione di aiutare Islamabad ha più che senso. Le alluvioni hanno sconvolto la vita di venti milioni di persone, tre quinti delle quali ha ancora bisogno di un supporto umanitario. L’Ue è stata generosa, ha inviato soccorsi e stanziato 320 milioni per dare un tetto e cibo a chi non ha più nulla. Poi ha pensato che bisognasse fare di più. La delibera conseguente è stata offrire un sostegno di breve termine all’economia pachistana, in modo da generare un circuito virtuoso di sviluppo. Tutto bene, almeno sino a che non è arrivata la proposta ispirata dal rappresentante per la politica Estera, Catherine Ashton, e sviluppata dal commissario per il Commercio, Karel De Gucht, i due numi comunitari del superliberismo. I quali hanno suggerito di sospendere i dazi per tre anni su decine di prodotti, secondo alcuni con l’idea di usare l’occasione come cavallo di Troia per un affondo nel nome dello smantellamento delle frontiere commerciale.
Come? Se l’Europa fosse avanzata come previsto inizialmente, «la clausola del paese più favorito» prevista dal Wto avrebbe condotto a un’apertura dei mercati anche agli altri big asiatici. Il continente sarebbe stato invaso dai prodotti orientali come il Pakistan lo è stato dalle acque.
La prima correzione s’è vista a metà settembre. E’ saltato fuori che l’Ue avrebbe chiesto a Ginevra di riconoscere l’eccezionalità della questione, come del resto auspicato dal commissario all’Industria Tajani, in modo da evitare contraccolpi esagerati sulle imprese. Con questo scudo, il confronto è scivolato sulle 81 linee da liberalizzare, tutte tessili meno due. Nulla di buono, secondo i tecnici della direzione Industria, per i quali il pacchetto Ashton/De Gucht limiterebbe il fatturato di 6 mila aziende e minacciato 120 mila posti, in un comparto - il tessile - che nel 2009 ha messo per strada 300 mila persone. Di qui la richiesta di sostituire nove linee e con altre altrettanto rilevanti, dal petrolio ai mobili e alle posate.
«E’ una lotta», ammette un funzionario vicino al dossier. De Gucht ha dovuto ritirarsi nelle ultime ore, ma si impunta sui jeans. Mentre i leader Ue cercano di scendere a patti con l’Oriente, il match fra liberisti e pragmatici della ripresa spacca il fronte interno. Nemmeno la crisi che picchia sulle imprese aiuta a essere compatti. Così un giusto aiuto umanitario diventa un boomerang tirato da chi, come gli inglesi, sull’altare del liberismo a tutti i costi si è giocato da anni l’industria nazionale. La misura del rischio che corre l’Europa è nella delibera che arriva dopodomani.