Mario Deaglio, La Stampa 5/10/2010, 5 ottobre 2010
SE CI FOSSE UN PROGETTO PER IL FUTURO
E’ stata finalmente la volta buona: dal cappello del presidente del Consiglio è uscito il nome del nuovo ministro dello Sviluppo economico. Essendosi Scajola, suo ultimo titolare, dimesso il 4 maggio, sono passati cinque mesi esatti in cui la poltrona del ministro è rimasta vuota e il ministero è stato gestito ad interim dal presidente del Consiglio, il quale ha ripetutamente promesso di indicare il successore e fino a ieri ripetutamente rinviato questa indicazione.
Questi cinque mesi hanno coinciso con l’assenza quasi totale di crescita economica e con l’aggravarsi dei problemi di alcune industrie e di alcune aree. La presenza di un ministro non sarebbe bastata a far tornare il sereno, così come non basterà la nomina a far ripartire l’economia, ma rappresenta un’occasione per dare senso a qualcosa che rischiava ormai di apparire priva di senso: l’essere rimasti così a lungo privi di un ministro chiave è un segno della difficoltà - prima ancora culturale che economica - degli italiani a uscire dall’attuale, terribile immobilismo della produzione che è anche un immobilismo delle iniziative e delle idee.
In tutti i Paesi europei il ministro dello Sviluppo economico, o il suo equivalente, rappresenta una cerniera strategica dei rapporti tra potere centrale ed economia: dai brevetti alla politica commerciale internazionale, dalle politiche comunitarie a quelle energetiche, dalla supervisione delle Camere di commercio a quella degli operatori di telecomunicazioni, per i suoi uffici passa gran parte della vita produttiva del Paese, anche dopo che, con la gestione ad interim, numerose competenze sono state affidate ad altri ministeri.
Che per cinque mesi si sia potuto gestire tranquillamente tutto questo in maniera amministrativa, senza un responsabile che se ne occupasse a tempo pieno, soltanto con un presidente del Consiglio che apponeva firme, inevitabilmente frettolose, là dove era strettamente necessario, è purtroppo coerente con un Paese in cui l’economia sembra largamente andare avanti per inerzia. L’immagine che una parte importante del Paese ha dell’imprenditore, del capo-azienda è quella dell’uomo energico e decisionista, «ispirato», ottimista ritagliata sul presidente del Consiglio quando ancora faceva quel mestiere. Questo può essere vero in alcuni casi e in alcuni settori, ma la gran massa dell’attività economica si scontra con vincoli purtroppo molto concreti, banali e micidiali, in cui l’«ispirazione» e l’ottimismo servono poco: con i crediti che le imprese non riescono a incassare dagli enti pubblici, con le autorizzazioni che non arrivano e bloccano gli investimenti, con le eventuali multe che arrivano invece in tempi rapidissimi, con i dieci anni mediamente necessari per portare a termine un processo civile.
Tutto questo è avvenuto nella sostanziale indifferenza del Paese, e soprattutto della politica, che troppo spesso sembra adorare il «piccolo è bello» e considerare tutto il resto un fastidio. Il ministro dello Sviluppo economico dovrà riuscire a ribaltare questa scala di valori che sta rapidamente affondando l’Italia e anche a individuare linee di lungo periodo per la crescita del Paese. Pur dovendo dedicarsi a numerosi affari giornalieri, dovrà avere quella che un tempo si chiamava «vision», ossia un’indicazione sufficientemente chiara di ciò che l’Italia potrà essere di qui a cinque-dieci anni e agire perché quest’indicazione diventi realtà. In questo senso il neo-ministro Paolo Romani ha un compito molto difficile e centrale nella politica e nell’economia italiana dei prossimi mesi: la vera capacità di durare dell’esecutivo non si può infatti misurare soltanto contando con il bilancino i voti ottenuti in Parlamento, ma valutando la sua capacità di formulare un coerente progetto di futuro, e di mettere in moto meccanismi perché questo traguardo venga davvero raggiunto.
Certo, in un regime di mercato l’economia va dove vuole e non dove dice il governo; va comunque ricordato che persino il più liberista dei recenti governi europei, quello «mitico» della Signora Thatcher, aveva molto chiare le priorità del Paese e - a torto o a ragione - concentrò gli sforzi pubblici in direzioni molto precise quali la finanza, le applicazioni della biomedicina, la creazione di eccellenze nel capitale umano e così di seguito, con il disegno strategico di fare della Gran Bretagna uno dei centri nevralgici dell’economia globale. E se oggi i governi tendono a occuparsi poco di «settori» - pur con notevoli eccezioni come quella francese e, in maniera meno apparente ma ugualmente efficace, quello tedesco - si occupano moltissimo di «fattori produttivi».
Qual è oggi il «disegno strategico» del governo per quanto riguarda lo sviluppo economico? Che cosa intende fare per rispondere alle crisi di settore e per impostare una politica dei fattori produttivi? Si può sperare di apprenderlo dal neo-ministro Paolo Romani. Al di là delle convinzioni politiche, merita un triplice augurio: quello di muoversi, e di muoversi con efficacia e di muoversi nella direzione giusta. Il rischio - per il neo-ministro e per gli italiani in genere - è che né da lui, né dal governo né dall’intera classe politica pervengano indicazioni chiare.