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 2010  ottobre 05 Martedì calendario

VIAGGIO NELLE VISCERE DELL’ARGENTINA

Negli anni Venti del Novecento due scrittori argenti­ni, Ricardo Güiral­des e Leopoldo Marechal cercaro­no di fissare in un romanzo l’identità di un popolo e con es­sa la propria. Figlio di proprieta­­ri terrieri, quarantenne che vive­va di rendita, il primo conosce­va Londra e Parigi, parlava un perfetto francese, era amico di scrittori di qua e di là dall’ocea­no. Di estrazione borghese, tren­tenne, il secondo apparteneva all’aristocrazia intellettuale bo­naresne, insegnava, era in con­tatto con le avanguardie euro­pee francesi e spagnole. La ricerca identitaria di Güiral­des si concretizzò in un libro, Don Segundo Sombra , uscito nel 1926. Con esso, la figura del gaucho entrò in letteratura do­po essere stata espulsa dalla sto­ria. L’avevano uccisa le grandi concentrazioni terriere, toglien­dole la libertà di movimento, la razionalizzazione degli alleva­menti, limitandone l’utilizzo, l’industrializzazione dell’agri­coltura, mettendola in concor­renza con nuove realtà sociali. Indipendente da appena un se­colo, L’Argentina (almeno quel­la che contava) mandava ora i propri figli a studiare nel Vec­chio continente, si compiaceva di un’antica origine europea e della rinnovata frequentazione, viveva con fastidio crescente l’aspetto brutale connesso a una nazione in fieri, dagli spazi sterminati, senza radici né cultu­ra, primordiale negli appetiti, nelle rivendicazioni, nelle ven­dette: ere un’élite che un po’ si vergognava del suo passato.
Quando i suoi membri si rese­ro conto che comunque prove­nivano anche da lì, erano impa­stati di sangue e di suolo, di soli­tudine e d’indipendenza, di de­strezza, cupezza e fierezza, era troppo tardi e la nostalgia è ciò che gli rimase in mano, acuta, ir­rimediabile, incurabile. Don Se­gundo Sombra ne è la testimo­nianza scritta, romanzo d’inizia­zione e di formazione, inno alla gauchità. «Al gaucho che porto in me, con devozione, come l’ostia nel suo ciborio» è la dedi­ca che lo apre.
Il lamento identitario di Güi­raldes era nobile e tuttavia steri­le: da un lato ancorava l’Argenti­na a un passato mitico che ne­gando il presente la condanna­va a vivere con la testa eterna­mente all’indietro, dall’altro ser­viva ai suoi detrattori per alimen­tare il mito eguale e contrario di un’aristocrazia europea trapian­tata sul Mar de la Plata, l’Argenti­na granaio del mondo scelta dal­la Storia per risollevare le sorti del Vecchio continente.
Vent’anni dopo Don Segundo Sombra , Marechal pubblicò il suo Adán Buenosayres , comin­ciato appunto vent’anni prima, e gigantesco tentativo di far qua­drare il cerchio di un’identità che fosse nazionale e insieme popolare,che accogliesse il gau­chismo di­Güiraldes e l’europei­smo dei suoi avversari, senza re­starne vittima, che desse spazio, insomma, al nomadismo del pri­mo e all’immigrazione del se­condo, ma anche all’impasto plurisecolare che l’indipenden­za aveva cementato, al nuovo ca­­rattere che aveva creato. Alle contraddizioni, insomma, di una musica nazionale, il tango, «nata nei bar e nei bordelli del peggior tipo», ma che, avvertiva ancora l’ambasciatore argenti­no della Parigi degli anni Tren­ta, «mai si danzerebbe nei salot­ti della gente bene educata». «Un sentimento triste che si bal­la » verrà definita. E questo ro­manzo è qualcosa del genere, di­sperato e struggente, estenuan­te e nervoso, grottesco nel suo voler essere truce, allegro nella sua tragicità.
Adesso che il capolavoro di Marechal esce per la prima vol­ta in Italia, curato da Claudio On­garo Haelterman e tradotto da Nicola Jacchia (Vallecchi, pagg. 709, euro 21), il lettore ha di fron­te lo straordinario e sterminato campo d’azione nel quale pote­va muoversi il suo autore, a pro­pri agio con le letterature nazio­nali straniere e con il dialetto lunfardo, un argot castigliano di derivazione lombarda, que­chua e guarani, usato dai primi immigrati in terra argentina. Co­struito come una sorta di matrio­ska, Adán Buenosayres racconta
un viaggio nella vita del suo pro­tagonista che poi si trasforma in una sorta di viaggio iniziatico e fantastico nelle viscere stesse della capitale, Cacodelphia, ov­vero la «città dei fratelli cattivi», il volto opposto della città glorio­sa di Calidelphia, nella quale Adán vorrebbe vivere. Al dop­pio registro si affianca il raccon­to­in prima persona del Quader­no vestito di blu, ovvero gli amo­ri e la giovinezza di Adán, simbo­lo della sua difficoltà ad adattar­si alla prosaicità della vita.
Imbevuto dei classici, Omero, i tragici greci, Dante, Ariosto, le­tore di Nietzsche, Freud e dei surrealisti, ma anche di Platone e Aristotele, amico e collega de­gli scrittori argentini della rivista Martín Fierro e del «gruppo di Florida», Marechal costruisce dunque un’opera-mondo in cui i diversi generi letterari si acca­vallano: elegia ed epica, satira e romanzo sociale. Il filo rosso è il prendere atto di una molteplici­tà identitaria e il cercare di con­vogliarla nell’alveo di un caratte­re nazionale che se ne faccia ga­rante e insieme la trasfiguri in un qualcosa di nuovo e di auto­nomo. L’immigrazione italiana e quella spagnola, l’ebraicità e il retaggio della dominazione in­glese, lo spettro dei gauchos e quello degli indios, il whisky e il mate, i bombillas attillati e la bombetta...
Pubblicato in Argentina nel 1948, Adán Buenosayres raccon­ta dunque il tentativo di uscire dall’«atroz encanto de ser argen­tinos »: quel combinato dispo­s­to di orgoglio e tendenza al vitti­mismo, favoleggiare su un pas­sato mitico e piangere su un pre­sente misero, sentirsi europei fra i sudamericani e rivendicare spagnolismo e gauchismo co­me caratteristiche nazionali, di­sprezzare i politici e affidarsi co­munque all’uomo della Provvi­denza... Peronista, il suo autore sarà travolto dalla caduta di Pe­ron e perché si torni a parlare del suo capolavoro bisognerà aspettare gli anni Settanta, quando identità nazionale e in­tegrazione latino-americana torneranno a essere temi centra­li del dibattito culturale del suo Paese e non solo. Marechal mo­rì proprio allora, «poeta depo­sto »dai suoi compagni d’avven­tura di un tempo, esule in patria, argentino senza rimorsi.